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Il segreto di san Gennaro

Il Bloc Notes di Michele Magno

Napoli, 4 agosto 1943: la città viene bombardata a tappeto dall’aviazione degli Alleati. Un ordigno danneggia gravemente la cattedrale. Immediatamente si sparge la voce che le ampolle con il sangue di san Gennaro erano andate distrutte. In un batter d’occhio una moltitudine di fedeli si accalca davanti al Duomo. A un tratto, compare un sacerdote che alza le braccia per imporre il silenzio. Mentre tutti trattenevano il fiato, annuncia che il sangue era salvo. Un testimone d’eccezione, Curzio Malaparte, descriverà così la scena: “La folla inginocchiata piangeva, invocando il sangue, […] lacrime di gioia solcavano quei visi scavati dalla fame, e un’alta speranza invadeva il cuore d’ognuno […]”.

Ma il 18 marzo 1944 il Vesuvio si risveglia all’improvviso, coprendo il cielo con una nube minacciosa. Dopo due settimane, il peggio sembrava passato. La popolazione voleva però essere rassicurata dal patrono con la consueta liquefazione primaverile, prevista per il 6 maggio. I raid aerei dell’estate precedente avevano raso al suolo la basilica di Santa Chiara, dove il sangue era portato al termine della processione perché compisse il miracolo. Viene pertanto deciso che meta della reliquia sarebbe stata la chiesa del Gesù Nuovo, zeppa di schiamazzanti soldati dell’esercito angloamericano incuriositi dal bizzarro rituale. Il sangue rimase duro come un sasso. Il santo era evidentemente sdegnato per l’atteggiamento irriguardoso degli “eretici”. Occorreva provvedere al più presto. Il 19 settembre si sarebbe celebrata l’altra festa del patrono, e la liquefazione non poteva fallire una seconda volta. I guappi di Forcella scrivono allora una lettera al commissario del governo militare alleato, paventando “tafferugli, sparatorie e simili” se i soldati non avessero mostrato un comportamento rispettoso. Allarmato, il commissario ordina ai soldati di mantenere il massimo contegno. Il 19 settembre il sangue si scioglie dopo un’attesa di cinquanta minuti.

Non fu l’unica volta che san Gennaro ebbe a che fare con i guappi. Per evitare razzie, durante la guerra il tesoro del santo era stato trasferito in Vaticano. Terminato il conflitto, bisognava recuperarlo. Le strade erano però infestate dai banditi, e tutti quei preziosi avrebbero fatto gola a molti. Il sindaco Giuseppe Buonocore, in qualità di presidente della Deputazione (l’organo preposto alla tutela del tesoro), stava discutendo del problema   quando fa il suo ingresso nel salone della giunta un uomo “tracagnotto, dalla faccia quadra, i capelli folti sale e pepe”. Messo al corrente della situazione, promette senza un attimo di esitazione: “Nce penzo io, ‘o vaco a piglià i’ stesso”. Era don Giuseppe Navarra, il “re di Poggioreale”. Arricchitosi con attività illecite, non era solo il ras del proprio quartiere, ma una riverita autorità pubblica. Nessuno avrebbe mai osato fargli uno sgarro. Di buon mattino, il 26 gennaio 1947 Navarra sale a bordo della sua Fiat 22 diretta a Roma, guidata da un autista e senza scorta. Verso le undici di sera l’auto viene avvistata nei pressi di via del Duomo. Raggiunta la cattedrale, Navarra consegna il tesoro nelle mani dei carabinieri. Viene quindi acclamato come un vero e proprio eroe. L’arcivescovo si offre di ricompensarlo. Ma -da munifico monarca qual era- rifiuta, chiedendo di devolvere una somma di denaro ai più indigenti.

I due aneddoti dimostrano come le vicende del sangue del santo siano indissolubilente legate a quelle della città di Napoli. Sono raccontati in un libro avvincente e di straordinaria erudizione, con cui Francesco Paolo de Ceglia ha ricostruito i quasi sette secoli di questo complesso intreccio (“Il segreto di san Gennaro”, Einaudi, 2016). La sua “storia naturale di un miracolo napoletano”, come recita il sottotitolo, è una magistrale ricognizione delle culture che dal Medioevo ad oggi lo hannno identificato come tale, sostenuto o contestato. Eppure su chi fosse il Gennaro storico (Ianuarius il suo cognome latino), nonostante gli sforzi degli studiosi, non si hanno ancora certezze. Dai più viene ammesso che, vescovo di Benevento tra il terzo e il quarto secolo, egli si recò in visita al diacono Sossio in carcere. Riconosciuto come cristiano, fu condannato alla decapitazione, eseguita nella zolfatara di Pozzuoli. Gennaro fu poi venerato come santo per la sua purissima fede, culminata col sacrificio della propria vita. Nel 432, i resti del martire vennero traslati nella catacomba inferiore del complesso cimiterale posto ai piedi della collina di Capodimonte.

 

Troveranno una collocazione definitiva nel 1497, in una elegante cappela sotterranea della cattedrale fatta costruire dai cardinali Alessandro e Oliviero Carafa, denominata “Succorpo”, dove ancora adesso riposano. Già venerato nella “maxima procexio” del 17 agosto 1389, in cui per la prima volta il sangue -raggrumato da tempo imemorabile- era stato rinvenuto liquido, nel Quattrocento il suo culto cambia cerimoniale. Oltre al sacro umore contenuto in due ampolle di foggia diversa, i napoletani possedevano il capo del martire che giaceva in un pesante reliquario antropomorfo. Quando la testa veniva accostata al sangue, questi si liquefaceva. L’interazione tra testa e sangue diventa così l’aspetto più suggestivo del miracolo. All’inizio del Novecento, Matilde Serao avrebbe ricondotto proprio a tale interazione un modo di dire tipico della lingua partenopea: “[…] A un certo punto di un racconto tragico o di un racconto comico, quando il napoletano vuole stupire il suo  ascoltatore, dicendogli di una combinazione bizzarra, di una coincidenza strana, che si presti al pianto o che si presti alle lacrime, egli esclama, sempre: se so’ incontrate ‘a testa e ‘u sangue”.

La liquefazione era un fenomeno naturale o sovrannaturale? Il celebre medico fiammingo Jean Baptista van Helmolt (1579-1644) non aveva dubbi: non occorreva tirare in ballo Dio o le anime dei morti, perché era un processo meramente fisiologico. Prima di lui, la stessa tesi era stata avanzata dal medico svizzero Theophrast Bombast von Hohenheim, alias Paracelso (1493-1541). Proprio a essa si sarebbe richiamata la bellicosa letteratura protestante che ambiva a realizzare una “reductio ad naturam” dei miracoli dei papisti. Cominciava così una lunga battaglia dottrinaria a cui partecipò perfino il grande Leibniz. Un frammento di fiala vitrea scoperto in una catacomba e macchiato da una sostanza scura fu consegnata dall’archeologo cattolico Raffaele Fabretti (1618-1700) al filosofo, considerato un modello di schiettezza intellettuale. Le sue analisi esclusero l’origine minerale del sedimento, accreditando l’ipotesi organica.

I sostenitori delle tracce ematiche potevano così esultare. Ma Napoli era scarsamente interessata alle dispute con i luterani. Il culto di san Gennaro era letteralmente esploso nel 1631, in seguito alla protezione che il patrono aveva accordato alla città durante una terribile eruzione del vulcano. Se l’ecatombe totale era stata scongiurata, il merito era del santo, che andava perciò ringraziato annualmente con una sfarzosa “festa del patrocinio”. Nel 1833 Ferdinando II dispose che le celebrazioni non si tenessero più il 16 dicembre, bensí la domenica successiva per consentire una maggiore affluenza dei fedeli. Finché proprio un 16 dicembre, quello del 1857, la terra tremò in tutto il Regno. Nella zona tra Potenza e Salerno le vittime furono migliaia, nessuna a Napoli. San Gennaro -si disse- preferiva il 16 dicembre per proteggere i suoi abitanti.

Era il paradiso dei maghi, la Napoli di età moderna. Arti divinatorie di ogni specie venivano praticate nei suoi vicoli. La magia attingeva a piene mani al simbolismo religioso. La credenza nel valore prognostico del sangue di san Gennaro era una delle poche a essere ufficialmente tollerata dal clero locale. Dove finiva la devozione e cominciava la mantica  era difficile stabilirlo. Ma era stata proprio la condanna dell’astrologia che aveva consentito la diffusione della mantica ianuariana soprattutto negli ambienti ecclesiastici più vigili, come quelli dei gesuiti. Essa infatti dava comunque sfogo alla volontà popolare di conoscere il futuro, ma in un cornice accettabile sotto il profilo teologico. Del resto, il “numen”, il potere divino del sangue di san Gennaro era democratico, non discriminava i fedeli in base al censo o al lignaggio. Lo stesso sovrano era tenuto a sottoporsi al giudizio del capriccioso umore. Come accadde al diciottenne Carlo, figlio di Filippo V, giunto il 10 maggio 1734 nella capitale di un regno finalmente affidato ai Borboni di Spagna. Diversamente da quanto era capitato al padre, il sangue si sciolse al suo cospetto. Si poteva quindi cantare il Te Deum. Sarebbe stato cantato molto più tardi perfino al cospetto di Maurizio Valenzi, il primo sindaco comunista.

Il 22 gennaio 1799 le truppe francesi del generale Jean-Étienne Championnet entrano a Napoli per instaurarvi la repubblica. Nello stesso giorno il sangue, che secondo i sanfedisti sarebbe dovuto restare solido in spregio agli occupanti animati dai perniciosissimi ideali dell’Illuminismo radicale, “si sciolse a porte chiuse e presenti i tesorieri e altri preti del duomo”. Il sangue era diventato “giacomino”, come i napoletani si divertivano a storpiare l’appellativo degli invasori. “Ccà le franzise sonco religiuse, bon’aggente”, venne scritto in una “parlata” affissa sul Gigante di Palazzo, che ospitava satire contro i potenti. Opppure era san Gennaro ad essersi sbagliato. Secondo una cronaca anonima, di questo avviso erano le vecchie popolane che, al passaggio della processione per via del Levinaio, gli gridarono contro: “Va’, vattenne santo Jennaro puorco; anche tu si’ giacomino, pu, pu! Vattenne da ccà! Nun ce passà cchiù pe ccheste bie! Nun te volimme guardà cchiù ‘n faccia. Pu, pu!”.

Il santo si riscatterà sessant’anni dopo. Il 7 settembre 1860 Giuseppe Garibaldi entra in città. Suo malgrado, decide di recarsi nella cattedrale. L’esperienza del 1799 gli aveva insegnato quanto importante fosse quella fluida benedizione. Con sua somma sorpresa, trova i cancelli della cappella del Tesoro serrati. Nel timore che il patrono potesse per distrazione sciogliere il suo sangue anche davanti all’odiato condottiero, l’episcopato aveva impedito l’incontro. Non potè invece negarlo due mesi dopo a Vittorio Emanuele II. Per ben cinque volte il sovrano piemontese, genuflesso, baciò le ampolle. Invano. Uno smacco che segnò l’inizio delle reciproche diffidenze e incomprensioni tra i Savoia e lo Stato pontificio.

Nella stagione della “belle époque” lo spiritismo a Napoli era divenuto una moda. E anche un lucroso affare. La maga pugliese Eusapia Palladino, naturalizzata partenopea, si esibiva come medium in sedute con cui si era guadagnata una fama internazionale. La passione per il medianismo era il sintomo delle inquietudini di una società che, parzialmente secolarizzata dal pensiero positivista, negava alla Chiesa cattolica il tradizionale ruolo di intermediazione con l’aldilà. Francesco Zingaropoli e Vincenzo Cavalli, i due occultisti più celebri di Napoli, negli anni Venti danno alle stampe una serie di opuscoli per dimostrare che san Gennaro era un fachiro e uno stregone. I loro più agguerriti avversari erano il sacerdote Giovanni Battista Alfano e il medico Antonio Amitrano, esponenti di spicco dell’apologetica ianuariana e autori di un’opera monumentale,  Il miracolo di San Gennaro: “una vera enciclopedia sull’argomento”, come nella prefazione la presentò Agostino Gemelli. La posizione dei “miracolisti” sembrava ormai inaccattabile.

Sarà messa nuovamente in discussione il 10 ottobre 1991, quando la prestigiosa rivista “Nature” ospita una lettera di tre illustri scienziati: “Noi proponiamo che la tissotropia possa fornire una spiegazione [del miracolo]. Tissotropia denota la proprietà di alcuni gel di liquefare quando mescolati o sottoposti a vibrazioni, e di solidificare di nuovo quando lasciati stare. Lo sbattimento o spesso leggere perturbazioni meccaniche rendono così una sostanza tissotropica più fluida, fino a farla cambiare da uno stato solido a uno sato liquido”. I tre firmatari della lettera erano il chimico Luigi Garlaschelli, il neurologo Sergio Della Sala e il fisico Franco Ramaccini. Si riapre così un dibattito secolare, destinato a trascinarsi fino ai nostri giorni. In realtà, già durante l’episcopato di Corrado Ursi (1966-1987), in ossequio alla più sobria devozione auspicata dal Concilio Vaticano II, l’uso del termine “prodigio” si era affermato su quello di “miracolo”. Non si trattava di una semplice sottigliezza lessicale, ma di una piccola rivoluzione copernicana. La nuova definizione, infatti, esprimeva la meraviglia e finanche la commozione di fronte a un fatto le cui cause restavano ignote, e in questo senso non si esponeva alle critiche degli scettici. Per altro verso, esaltava il significato spirituale di un evento che restava centrale nel sentire religioso dei fedeli.

Il 14 febbraio 1969 Paolo VI approvò con la “Mysterii Paschalis” il nuovo calendario liturgico universale. La riforma rendeva la memoria del 19 settembre, tradizionalmente dedicata a san Gennaro, obbligatoria e solenne a Napoli, ma facoltativa nel resto del mondo cattolico. Il “declassamento” del santo lasciò di stucco la città. Tuttavia, chi non crede di solito non cambia opinione di fronte alle prove. E chi crede non ne ha bisogno. Inoltre, come conclude con splendida ironia de Ceglia, san Gennaro non teme confronti né con la scienza né con la Curia. Lo dimostra la mobilitazione dei mesi scorsi contro un decreto del ministro degli Interni volto a intaccare la laicità della Deputazione. Nonostante tutto e tutti, i napoletani fanno sempre quadrato attorno al santo. Non per caso nel 1969, alla notizia della sua retrocessione, sui muri di Napoli apparve un invito, vergato da una mano ignota, espressione della antica saggezza partenopea: “San Genna’, fottatenne”.

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