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Kant

Il pacifismo giuridico di Immanuel Kant

Il Bloc Notes di Michele Magno

Immanuel Kant (1724-1804) scrisse il “Progetto per una pace perpetua” nel 1795. Nella primavera di quell’anno era stata firmata la pace di Basilea, con cui Spagna, Olanda e Prussia riconoscevano alla Francia rivoluzionaria il ruolo di grande potenza europea. Sull’onda dell’entusiasmo per un evento da lui auspicato, nella sua opera il filosofo di Königsberg (oggi Kaliningrad) parte da una premessa che condivide con Thomas Hobbes (1558-1679). Con l’autore del “Leviatano”, infatti, egli condivide l’idea che lo Stato nasce dall’esigenza di porre fine alla condizione naturale di violenza fra gli uomini, introducendo un elemento di carattere coattivo, una forza superiore rispetto agli individui che li costringa, anche loro malgrado, a rispettarsi reciprocamente.

Come Hobbes, Kant sostiene che lo Stato è il frutto di un patto fra gli individui. Questi stipulano tra loro un contratto in cui convengono di convivere pacificamente sulla base di leggi che accettano tutti perché lo trovano vantaggioso e ragionevole. Il “Progetto” ripropone lo stesso discorso al livello degli Stati: come gli individui si sono accordati fra di loro e hanno raggiunto la pace attraverso lo Stato, così gli Stati, quali “individui in grande”, dovranno accordarsi fra loro in una federazione per raggiungere la pace.

Ma la strada per arrivare a uno “Stato dei popoli”, come lo designa o, con un’altra espressione, a “una Repubblica universale” è piena di ostacoli. Proprio perché gli Stati hanno già una loro sovranità che esercitano sui cittadini, essi non sono disposti a rinunciare a tale sovranità per sottomettersi a un’autorità superiore. Il discorso kantiano parte dal pessimismo per muoversi verso l’ottimismo: gli uomini come singoli individui, e gli Stati come individui in grande, nella condizione di natura, cioè nello stato di natura, tendono alla guerra reciproca; come all’interno degli individui nasce una forza che li porta a cooperare nello Stato, così all’interno dei popoli nasce una forza che li spinge alla cooperazione internazionale. Si parte “da una considerazione antropologica, sulla natura dell’uomo, di tipo pessimistico, ma a mano a mano nel discorso di Kant si innesta un ottimismo che lo porta a sperare nella realizzazione di una pace perpetua” (Antonio Gargano, “Il Progetto per una pace perpetua di Kant”, Istituto italiano di studi filosofici, disponibile in pdf).

Prima di Kant, numerosi pensatori avevano affrontato la questione: da Erasmo da Rotterdam (1466/1469-1536) fino all’abate di Saint-Pierre (1658-1743). Ma i loro progetti,   centrati prevalentemente sulla necessità di eliminare le cause psicologiche delle guerre, come l’aggressività o l’espansionismo dei sovrani, quasi sempre culminano in un appello ai prìncipi. Invece Kant, come è stato osservato, laicizza la diagnosi delle guerre: queste non dipendono dalle cattive intenzioni dei sovrani, ma da cause iscritte nella struttura sociale: è la struttura sociale dell’Antico Regime, dell’assolutismo, la matrice inesauribile di guerre. Dopo questa premessa, Kant entra nel merito del progetto, e adduce prima qualche piccola clausola preliminare, accessoria, per edificare la pace, poi identifica tre grandi condizioni per poter sperare nella pace perpetua: che ogni Stato abbia una struttura repubblicana; che si formi una federazione di liberi Stati; che si diffonda il diritto di ospitalità, cioè l’accettazione degli stranieri sul proprio territorio. L’autore delle tre “Critiche” assume così alcuni principi fondamentali della Rivoluzione francese come prerequisiti per la pace perpetua: gli Stati non possono conquistarne o acquistarne altri, a nessun titolo, neppure per eredità dinastica, dice Kant, e gli Stati non si debbono ingerire negli affari degli altri Stati.

Prima di tutto la “repubblica”: non c’è speranza di pace perpetua se gli Stati non sono tutti repubblicani. Ed è molto interessante il suo concetto di repubblica.  Kant mette in secondo piano la tipologia classica delle forme di Stato, cioè monarchia, aristocrazia e democrazia: ci sono soltanto la repubblica e il dispotismo. Ma quali sono le caratteristiche della repubblica? Prima di tutto la libertà: la libertà intesa però come coincidente con la legge, quindi non la libertà sfrenata dallo stato di natura, ma la libertà di leggi accettate razionalmente. Questa libertà si traduce in uguaglianza: le leggi sono un fatto razionale, valgono in maniera uguale per tutti, quindi la repubblica è contraddistinta da libertà e uguaglianza, uguaglianza del cittadino di fronte alla legge; di nuovo i cardini della Rivoluzione francese. Anzi Kant fa un’affermazione paradossale, e dice: tranne che per Dio, per il quale non si può applicare il concetto di dovere, non esiste nessuno, neppure un’entità angelica, che non si debba sottomettere alla legge. La legge è uguale per tutti nel senso più forte del termine. Questa è la repubblica. La repubblica è libertà ed è soggezione alla legge, soggezione che vale per tutti e quindi implica uguaglianza.

La terza caratteristica è molto importante: le repubbliche sono sempre rappresentative. Kant afferma: quando vediamo rapporti diretti tra il governo e le masse con una osmosi di qualunque tipo ci troviamo di fronte a forme di dispotismo, non siamo di fronte a forme di repubblica. La repubblica si fonda sulla rappresentatività. La repubblica implica che ci siano rappresentanti degli interessi dei vari settori della società, i quali, secondo regole che possono variare da repubblica a repubblica, gestiscono la rappresentanza per un certo periodo. Invece, quando c’è una presunta partecipazione diretta del popolo al potere, siamo di fronte a una forma di dispotismo.

Quindi repubblica per Kant significa libertà, uguaglianza e rappresentanza. Il concetto di rappresentanza è legato a quello che è per lui veramente l’elemento distintivo delle repubbliche: la divisione dei poteri. Questo è un criterio superiore agli altri. In conclusione: la repubblica c’è quando ci sono libertà, uguaglianza, rappresentanza, ma soprattutto, la divisione dei poteri. Se il potere esecutivo, legislativo e giudiziario non sono divisi tra di loro, non si ha repubblica. L’esistenza di una repubblica non dipende dalla partecipazione di massa, dai consensi (il consenso è implicito, per Kant conta: la repubblica non essendo dispotismo implica il consenso dei cittadini; nella repubblica, si è cittadini e non sudditi), ma il consenso non è il fatto principale: il fatto principale “è la divisione dei poteri, cioè che chi fa le leggi non è la stessa persona che le mette in esecuzione, e non è la stessa persona che ne controlla l’applicabilità e verifica che il cittadino si comporti in conformità alle leggi” [Gargano].

Ricapitoliamo. È necessaria la repubblica, ma ci sono Stati che non sono repubblicani. È necessario il federalismo, ma gli Stati non sono disposti a rinunciare alla loro sovranità. È necessario il diritto di ospitalità, ma egli stesso elenca esempi storici in cui il diritto di ospitalità è stato negato fino alla conquista, fino alla rapina, fino al genocidio. Allora Kant rafforza il suo discorso con un capitolo sulla garanzia della pace perpetua. Questa garanzia, paradossalmente, viene dalla natura stessa: “Ciò che fornisce questa garanzia è niente di meno che la grande artefice natura (‘natura daedala rerum’) dal cui corso meccanico si vede brillare la finalità che dalla discordia tra gli uomini fa sorgere la concordia anche contro la loro volontà; per questo viene chiamata destino”, che in un altro linguaggio si può chiamare Provvidenza. Del destino, della Provvidenza, dal punto di vista teorico, non possiamo dire niente, fa parte del “noumeno”, della “cosa in sé”, al di là delle nostre possibilità di conoscenza.

Dal punto di vista conoscitivo, è un discorso infondato; ma come uomo pratico, sostiene Kant, devo credere nel destino, ovvero nella Provvidenza. Scorgo nella storia il fatto che nonostante antagonismi, guerre e conflitti, gli uomini preparano una civiltà sempre maggiore. Non è qualche cosa che si possa dimostrare, ma nel gettare lo sguardo sul disegno della storia nel suo insieme, vedo che certe operazioni di guerra, certe operazioni apparentemente solo distruttive, poi, all’insaputa dei loro autori, portano frutti positivi. Pensando all’epoca contemporanea a Kant, si può fare questo esempio: Napoleone Bonaparte porta distruzione in tutt’Europa con le sue guerre che lo vedono antagonista degli Stati ancora feudali, alla fine però non rimane un campo di macerie, alla fine delle guerre napoleoniche il Codice di Napoleone, l’abolizione della servitù della gleba, l’abolizione della feudalità sono un fatto: il codice di diritto civile moderno ormai è penetrato in tutta Europa. Kant “pensa a questo tipo di eventi: se ci si ferma al particolare si ha a volte l’impressione solo della devastazione, della tragedia, del negativo; vedendo invece la storia nel suo complesso si scorge che anche antagonismi, sofferenze, conflitti, visti in una luce più ampia, hanno portato a qualche cosa di positivo [Gargano].

In fondo, per Kant la pace è un’ideale morale, quindi per pervenire alla pace perpetua gli uomini politici si devono comportare come uomini morali. Viene alla mente il nome di Machiavelli. Machiavelli ha distinto nettamente la politica dalla morale. Kant invece apre la sezione del suo libro dedicata a politica e morale proprio ipotizzando la perfetta conciliazione tra politica e morale. Riprende un versetto del Vangelo secondo Matteo, dove si dice: “Siate prudenti come serpenti e candidi come colombe”. Prudenti come serpenti significa scaltri come i politici, siate furbi, come diceva Machiavelli; ma nello stesso tempo potete essere anche candidi come colombe, cioè perfettamente schietti, sinceri, veraci. Vuol dire: si può essere insieme politici, prudenti come serpenti, e uomini morali, candidi come colombe. Politica e morale sono perfettamente ricongiungibili.  L’uomo deve agire come se la ragione potesse trionfare. Per Kant non vi è certezza che la pace si realizzi. La “sua opera è un grande insegnamento in questo senso: noi dobbiamo vivere e agire come se il trionfo della pace fosse possibile, essa infatti è possibile, per ragioni teoriche. Oggettivamente la pace è possibile, allora dobbiamo vivere come se ci stessimo sempre più avvicinando (o agendo in modo da avvicinarci sempre di più) alla pace, cioè al trionfo della moralità, al trionfo della ragione” [Gargano].

Qual è per Friedrich Hegel (1770-1831), il suo primo e più grande detrattore, la debolezza di Kant? L’analisi svolta nei “Lineamenti di filosofia del diritto” dal filosofo di Stoccarda è di una lucidità estrema. La pace tra gli individui è possibile perché ci sono gli Stati sovrani. Ma la sovranità implica che la legge sia resa effettiva: se qualcuno non rispetta la legge c’è una sanzione, se la legge non viene rispettata c’è un giudice, c’è un pretore che la fa rispettare. Come la fa rispettare? Comminando una pena, eseguita, se necessario, con la coazione, con la forza. Hegel fa questo discorso: ci vuole una sovranità sovranazionale per avere la pace, proprio come all’interno degli Stati la pace è imposta da un sovrano (che può essere anche un parlamento, non deve essere per forza una persona, una testa coronata), un sovrano il quale, se qualcuno rompe la legge, si rivolge a giudici che condannano al carcere, comminano multe, infliggono punizioni; se manca il giudice, se manca il pretore, con la capacità di rendere efficace la legge, la legge rimane una parola vana. La federazione di Stati che Kant auspica con tanto ammirevole slancio morale rischia di rimanere lettera morta se non c’è una forza coattiva che imponga il rispetto della legge.

Forse, se diamo un sguardo alla storia del Novecento fino ai nostri giorni, dovremmo essere ancora più pessimisti di Hegel. Almeno fino a quando la federazione mondiale degli Stati, cui dovrebbe tendere l’Onu, non si doterà di poteri sovrani.

 

 

 

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