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Bobbio

Il dubbio e la scelta di Norberto Bobbio

Il Bloc Notes di Michele Magno

 

Secondo Roland Barthes (che lo ha coniato), il termine “neneismo” consiste nello stabilire due contrari e nel soppesarli l’uno con l’altro in modo da rifiutarli ambedue: non voglio né questo né quello. Si tratta di un procedimento magico, precisava l’eminente semiologo francese, attraverso cui si equipara quanto è imbarazzante scegliere per liberarsi di una realtà che non corrisponde ai propri pregiudizi (“Miti d’oggi”, Einaudi, 1994). Dal “né con lo Stato né con le Br” di ieri al “né con la Nato né con Putin” di ora, la nostra storia più recente è piena di neneismi. I loro adepti, pallide controfigure del Romain Rolland autore, poco dopo l’inizio della Grande guerra, di “Au-dessus de la mêlée” (“Al di sopra della mischia”), non hanno il coraggio di assumersi la prima responsabilità che Norberto Bobbio assegnava agli intellettuali: quello di “impedire che il monopolio della forza divenga anche il monopolio della verità” (“Il dubbio e la scelta”, La Nuova Italia Scientifica, 1993).

Al contrario, i Canfora, Di Cesare, Orsini, Rovelli (solo per fare qualche nome) predicano il “né di qua né di là”, ritengono che il loro compito sia quello di non sporcarsi le mani, di guardare con aristocratico disdegno i cani che si azzuffano; e magari di continuare a speculare, pronosticando sventure, sull’esito della “operazione militare speciale”. Sono quegli studiosi che, professandosi neutrali, credono “di galleggiare sui flutti -aggiungeva Bobbio- come i signori della tempesta, e sono respinti, senza che se ne accorgano, in una isola disabitata”. Ma nel tempo presente, dove sono in gioco i valori sommi della democrazia liberale, non c’è spazio per posizioni terziste (leggi: antioccidentali). Bisogna scegliere da che parte stare: o di qua o di là.

Per riprendere una metafora cara a Julien Benda, tra Michelangelo che rinfaccia a Leonardo la sua indifferenza alle sventure di Firenze, e Leonardo che risponde che lo studio della bellezza occupa tutto il suo cuore, i sedicenti partigiani della pace non dovrebbero avere dubbi a schierarsi con lo scultore della Pietà. C’è un verso del “Bellum Civile” del poeta latino Lucano che recita: “Victrix causa deis placuit/ Sed victa Catoni”. Il suo senso è: la causa di Cesare vinse perché appoggiata dagli dei, mentre Catone l’Uticense perse per aver sposato la causa della libertà repubblicana. Significa che i vinti hanno sempre torto per il solo fatto di essere vinti? Ma il vinto di oggi non può essere il vincitore di domani?

*Il Foglio

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