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Tunisia

Il diluvio dopo il governo Meloni?

Storia e scenari fra governi politici ed esecutivi tecnici. L’analisi di Gianfranco Polillo

 

Il Governo di Giorgia Meloni potrebbe essere una sorta di ultima spiaggia. Dove il condizionale ha solo un valore scaramantico. Una sorta di “après moi le déluge!”, se le cose non dovessero cambiare. Dal 1992, epoca che segnò la fine della Prima Repubblica, l’Italia ha sperimentato ogni possibile soluzione. Dal 1994 il centro destra, guidato da Silvio Berlusconi, caduto quasi subito sotto i colpi della magistratura militante. Quindi il breve interregno di Lamberto Dini. Cui aveva fatto seguito il centro sinistra: Prodi, D’Alema 1 e D’Alema 2 ed infine l’immarcescibile Amato. Quindi di nuovo Berlusconi, poi Prodi ed ancora Berlusconi. Per terminare con Mario Monti.

A partire dalla XVIII legislatura, la novità di Enrico Letta, quindi Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Finché un elettorato, sempre più esasperato, aveva deciso di tentare il tutto per tutto, nel plebiscito a favore dei 5 stelle. Ed ecco allora il Conte I ed il Conte II: la stessa sagoma per due maggioranze antitetiche: di centro-destra la prima, di centro-sinistra la seconda. Per giungere, alla fine, a quella sorta di capolinea – il Governo Draghi – da cui è ripartito il ciclo politico con il ritorno ad un Presidente del consiglio direttamente eletto dal popolo.

In questi lunghi trent’anni ci sono stati solo tre presidenti del consiglio al di fuori della mischia politica. Tecnici come Carlo Azeglio Ciampi, una vita spesa in Banca d’Italia. Chiamato a traghettare l’Italia dalla crisi del 1992. O come Mario Monti, uomo della Bocconi, più volte impegnato sul fronte europeo. Ed, infine, Mario Draghi. Forse il più prestigioso, non solo per la sua lunga carriera all’interno delle istituzioni italiane. Ma per l’indubbio prestigio internazionale, costruito nel fuoco di quella battaglia politica che, alla fine, aveva portato al salvataggio dell’euro. Salvataggio reso possibile solo grazie alle innovazioni introdotte nella politica della BCE, di cui era Presidente.

In tutti i casi osservati, il ripetersi di uno schema. Le forze politiche governano il Paese, per un certo numero di anni. Lo dissanguano con le loro politiche scellerate. Per poi cedere la mano ad un tecnico chiamato a rimettere insieme i cocci. E, quindi, ricominciare. Troppo pessimismo? Nel 1993 Ciampi fu chiamato per recuperare credibilità sui mercati internazionali, dopo la svalutazione della lira e la forte perdita delle riserve valutarie. In quell’anno i soli debiti esteri sul Pil (la posizione patrimoniale netta) ammontavano al 10,9 per cento. Con Ciampi, alla fine del ‘94 si ridussero ad un più fisiologico 7,2 per cento.

Mario Monti divenne Presidente del Consiglio più o meno per gli stessi motivi. Con gli spread che avevano raggiunto i 575 punti base, a seguito del sommarsi di errori su errori. Nei dieci anni precedenti, fin dalla nascita dell’euro, con il susseguirsi di Governi di destra e di sinistra, l’economia italiana era lentamente scivolata verso un baratro. Il deficit delle partite correnti (misura del grado di competitività di un Paese) era progressivamente cresciuto fino a superare il 3 per cento del Pil e con esso sia il debito pubblico sia quello nei confronti dell’estero. Il primo passato dal 108,9 per cento del Pil del 2001 al 119,7 del 2011. Il secondo cresciuto fino a raggiungere il 19,1 per cento dello stesso Pil, nel terzo trimestre del 2011.

Mario Draghi fu chiamato da Mattarella a seguito di una sfarinamento della vecchia maggioranza parlamentare, guidata da Giuseppe Conte. Quella giallo-rossa. Ed ai falliti tentativi di puntellarla con manovre di palazzo rivolte ad organizzare una pattuglia raccogliticcia – i cosiddetti “volenterosi” – per ottenere la sospirata maggioranza. Tutto questo, mentre il Paese stava uscendo faticosamente da quella lunga agonia, ch’era stata l’epidemia di Covid. Ed il debito pubblico, in un solo anno, (il 2020) cresceva di 21,2 punti di Pil: più del doppio di rispetto ai risultati dell’intero precedente decennio (2001/2011).

Episodi, quindi, che parlano chiaro. Con un debito pubblico che, ormai, ha raggiunto il 150,8 per cento del Pil (2021) non ci sono margini ulteriori. Non c’è più spazio per i guastatori. É la politica che deve rinsavire, mettendo da parte ubbie, ripicche, voglie di revanche. E chi più ne ha più ne metta. Tecnici all’orizzonte, da chiamare al capezzale del malato, francamente, non se ne vedono. E comunque in precedenza erano intervenuti dopo un intervallo di dieci anni. Quando oggi la poltrona di Palazzo Chigi reca ancora l’impronta di Mario Draghi. Per cui risulta impensabile pensare ad un’ulteriore sospensione della democrazia. Che comunque, come in passato, richiederebbe formule di “unità nazionale” difficili da individuare.

Lo dimostra la progressiva frattura, che si intravede all’interno della società italiana. Con Fratelli d’Italia che continua a crescere nei sondaggi ed il gradimento per Giorgia Meloni che tende ad aumentare. Episodi che stanno ad indicare una crescente voglia di serietà dell’elettorato, di fronte alle gravi incognite del momento. Mentre a sinistra, la crisi del PD apre la strada ad ogni possibile avventura, offrendo ai 5 stelle la palma di una più generale rappresentatività, che non promette alcunché di buono. Se non ulteriori fratture dell’unità nazionale: sia sulla politica interna che in campo internazionale. Con una polarizzazione che renderà più difficile la stessa ordinaria amministrazione.

Quale sbocco può avere una situazione simile? Avvicina o allontana un possibile punto di rottura? La Francia del 1958 dovrebbe far riflettere. Anche allora un sistema parlamentare troppo fragile e debole non resse più alla prova dei fatti. Fu spazzato via da una presa di coscienza collettiva, che consentì il passaggio verso il semi presidenzialismo e la V Repubblica. Più che una libera scelta, uno stato di necessità. Al quale, ora come allora, sarebbe difficile eccepire.

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