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Cina

Il dietrofront della Cina su Covid e Big Tech

La Cina torna sui suoi passi sia nell'approccio al Covid sia alle Big Tech. Ecco cosa ha fatto e perché. Un estratto dell'articolo di Michelangelo Cocco per Domani Quotidiano

 

In Cina il rallentamento della crescita (per il 2022 il Fondo monetario internazionale stima il Pil al +3,2 per cento) e le proteste studentesche del mese scorso hanno costretto Xi e compagni a una inversione, con la rimozione di tutte le principali restrizioni (tracciamento, tamponi di massa, limitazioni agli spostamenti interni, obbligo di indossare la mascherina nei luoghi chiusi).

Alla fine la leadership si è resa conto che la politica “contagi zero” promossa da Xi era insostenibile, per le sue ripercussioni sulla produzione e sulla vita dei cittadini, e ha deciso di lasciare circolare il virus. La priorità assoluta per il 2023 è rimettere in carreggiata l’economia. Intanto, l’Oms dice di essere «molto preoccupata per l’evoluzione della situazione in Cina».

LA GRANDE PAURA

La gente non esce di casa, perché i cinesi – che tradizionalmente puntano sulla prevenzione più che sulla cura delle malattie – hanno una paura del virus che a noi può risultare folle.

Anche le autorità ci hanno messo del loro, dando grande risalto negli ultimi tre anni alle conseguenze sulla salute del long Covid. Come che sia, dall’annuncio – due settimane fa –  della cancellazione di “contagi zero”, fino al termine delle lunghe festività del chunjié – in circa due mesi – le proiezioni stimano che si contagerà il 60 per cento della popolazione, ovvero 840 milioni di persone.

Gli epidemiologi prevedono il picco per la fine del mese prossimo e un ritorno a una relativa normalità entro febbraio.

Non ci sono dati sui morti – fermi ufficialmente a 5.242 – né informazioni sui danni che l’esplosione del Sars-Cov-2 sta causando nelle diverse aree del paese.

Un testimone citato dalla Reuters ha riferito di lunghe code di bare in uno dei crematori di Pechino. I canali Telegram rimandano immagini di reparti di terapia intensiva sovraffollati a Chongqing.

In Cina, tra i maggiori produttori globali di ibuprofene, scarseggiano gli antinfiammatori a base di questo principio attivo, dei quali ora viene accelerata la produzione e razionata la vendita in farmacia.

Il timore principale, assieme a quello di un’ecatombe (un recente studio dell’università di Hong Kong prevede fino a 1 milione di vittime) è quello di un assalto ai nosocomi, con conseguente collasso del sistema sanitario, in un paese che ha soltanto 4,5 posti di terapia intensiva ogni 100.000 abitanti (contro i 34,7 degli Stati Uniti e i 29,2 della Germania).

Le vittime saranno inevitabilmente tante, anche perché l’industria farmaceutica nazionale non è riuscita a produrre vaccini efficaci come quelli dei paesi avanzati, mentre la campagna vaccinale – sulla quale in questi giorni si prova a recuperare terreno –  è rimasta indietro.

Secondo i dati governativi, solo il 60 per cento degli adulti ha ricevuto una dose booster, tasso che crolla al 42 per cento tra gli ultra-ottantenni: è il frutto del combinato disposto di una politica che aveva scommesso tutto sulle chiusure e di una popolazione decisamente No-vax, soprattutto tra gli anziani.

ALIBABA &CO. RIABILITATE

L’altro grande dietrofront rispetto alle politiche degli ultimi due anni si è registrato domenica scorsa, quando il nuovo segretario di partito della provincia dello Zhejiang ha visitato il quartiere generale di Alibaba, nel capoluogo Hangzhou.

Il 10 aprile 2021, l’antitrust aveva appioppato una multa da 2,7 miliardi di dollari al colosso del commercio elettronico che il 3 novembre 2020 era già stato costretto a rinunciare all’offerta pubblica iniziale del suo braccio finanziario Ant Group, con la quale era pronta a raccogliere 37 miliardi di dollari nelle borse cinesi.

Provvedimenti contro la “espansione disordinata del capitale” del tutto simili a quelli presi contro altri giganti dell’hi-tech, che avevano provocato il licenziamento e le dimissioni di centinaia di migliaia di dipendenti.

Ora invece Yi Lianhong ha invitato la compagnia fondata da Jack Ma a «sforzarsi di essere uno modello di sviluppo innovativo».

E venerdì scorso, il comunicato conclusivo dell’annuale conferenza sul lavoro economico ha promesso il sostegno del governo alle big tech, invitate a «mostrare pienamente le proprie capacità» per favorire la crescita, la creazione di posti di lavoro e la concorrenza internazionale.

Il tentativo è quello di far tornare gli investitori globali a scommettere su compagnie che – come Alibaba – hanno perso fino a due terzi del loro valore azionario (a Wall Street come ad Hong Kong) a causa dei timori suscitati dai provvedimenti regolatori voluti di Xi, percepiti come un attacco al capitale privato.

Del resto il settore privato genera il 60 per cento del Pil, oltre il 50 per cento del gettito fiscale e offre circa l’80 per cento degli impieghi urbani.

Sull’importanza di ridare ossigeno ai colossi dell’hi-tech il governo si è espresso con un documento che sostiene la necessità di stimolare la domanda interna per i prossimi 13 anni: nel testo viene sottolineata la centralità dei «nuovi tipi di consumo» e la necessità di dare «sostegno alle società di piattaforme e al settore dell’istruzione online» rese di mira negli ultimi due anni.

(Estratto dell’articolo pubblicato sul quotidiano Domani, qui la versione integrale)

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