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Energia

Green pass, ecco come e perché Bruxelles se ne lava le mani

L'analisi di Giuseppe Liturri

 

Quando si tratta di occuparsi dell’uso più o meno legittimo del green pass, il confine labile tra le competenze del diritto UE e quello del diritto nazionale, dopo anni di avanzamenti, arretra vistosamente.

Con riferimento all’uso del certificato COVID digitale della UE anche per altri scopi – così come sta avvenendo in Italia, dove viene usato per comprimere delle libertà personali – la Ue fa sapere che non è affare suo. È una questione che attiene al diritto nazionale, purché il cittadino UE non sia costretto a dotarsi di un altro certificato COVID nazionale, e possa quindi utilizzare quello UE anche per fini interni, anche i più discriminatori. È questa la sintesi della risposta pilatesca fornita martedì dal Commissario alla giustizia Didier Reynders ad una specifica interrogazione inviata da Antonio Rinaldi, europarlamentare del gruppo Identità e Democrazia. Una posizione che lascia francamente stupefatti e offre l’idea di un diritto dell’Unione estensibile a richiesta, “à la carte” verrebbe da dire, pronto ad esondare fino ad annullare qualsiasi autonomia decisionale degli Stati membri, e poi pronto a ritrarsi lasciando spazio al diritto nazionale. Questa interrogazione ha avuto il merito di saggiare il terreno, ponendo una domanda relativamente parziale, che è però stata sufficiente per mostrare una Commissione che reagisce ritirandosi, spaventata dalla responsabilità di dover valutare eventuali lesioni dei diritti fondamentali dei cittadini UE. Curiosa posizione, considerando che dall’inizio della pandemia a Bruxelles non hanno perso occasione per ergersi a protagonisti dell’emergenza sanitaria, a partire dagli acquisti di vaccini. Una vicenda che non potrà non finire davanti alla Corte di Giustizia Europea.

Se questa è la sintesi, i dettagli della vicenda aggiungono solo perplessità ed inquietudine.

Rinaldi fa notare alla Commissione se non ritiene “distorto e potenzialmente discriminatorio” l’utilizzo del certificato Covid digitale UE, inizialmente “concepito esclusivamente al fine di agevolare la libera circolazione fra i Paesi membri”, ma utilizzato dal 6 agosto per limitare l’accesso a taluni servizi ed attività. Inoltre si sollevano perplessità in merito alla compatibilità delle norme italiane del D.L. 105 con i valori fondanti della UE sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali della UE, in particolare il principio di non discriminazione (articolo 21).

La Commissione ha risposto oscillando tra l’elusivo e il contraddittorio. Da un lato ribadisce che il certificato mira a facilitare la libertà di circolazione intra UE; dall’altro, lascia liberi gli Stati membri di utilizzare il certificato “per altri scopi” che, a suo parere, restano estranei all’applicazione del Regolamento 953 sul certificato verde digitale. In altre parole, la Commissione ci fa sapere che a loro preme il tema della libera circolazione e di quello soltanto si occupa. Qualsiasi valutazione in tema di proporzionalità delle restrizioni imposte per mezzo del certificato e di conseguente discriminazione di alcuni cittadini in conseguenza della scelta di non vaccinarsi, non è questione che riguarda il diritto dell’Unione.

Alla Commissione interessa soltanto che il certificato Covid UE sia accettato anche a fini nazionali, per evitare che il cittadino UE debba munirsi anche di un secondo certificato Covid nazionale. Rispettato questo requisito, il certificato Covid può essere utilizzato alla stregua di un manganello. Dalle prime interpretazioni trapelate dai servizi della Commissione, pareva che un eventuale uso nazionale non potesse andare oltre lo scopo di agevolare la libera circolazione ma, con questa risposta, si rompe ogni argine. Un eventuale uso discriminatorio non è un problema per la Commissione. Se domani quel certificato diventasse lo strumento per imporre un sistema di credito sociale alla cinese – erogando premi e sanzioni in relazione al comportamento virtuoso dei cittadini, una sorta di tessera annonaria ai tempi della gig economy – o qualsiasi altro utilizzo palesemente discriminatorio, la Commissione ritiene che la Carta dei diritti fondamentali della UE non troverebbe applicazione, poiché trattasi di questioni di diritto nazionale e non della UE.

Tale risposta lascia ancora irrisolti numerosi aspetti tra cui quello della protezione dei dati personali e quindi quello dei soggetti abilitati al controllo, per i quali il diritto nazionale non sembra poter derogare ai requisiti stringenti posti dal Regolamento UE.

Stupisce questa inaspettata ritirata della Commissione, da sempre incline a espandersi, anche sul filo della violazione dell’articolo 5 del TUE, in cui si dispone che le competenze della Ue sono delimitate e regolate dal principio di attribuzione, secondo il quale la Ue ha solo le competenze conferitele dai Trattati. A seconda dei settori di attività (dogane, sicurezza, concorrenza, salute, sicurezza, ecc…) si hanno così competenze esclusive, concorrenti e di sostegno in una scala decrescente di potestà legislativa della Ue. C’è ancor più da stupirsi quando ci si chiede dove siano finite le preoccupazioni della UE per il rispetto dello Stato di diritto, argomento su cui la UE è stata particolarmente sensibile quando si è trattato di tutelare le minoranze LGBT, ma su cui ora balbetta vistosamente di fronte ad una discriminazione ai danni di chi “ha scelto di non vaccinarsi”, una opzione esplicitamente meritevole di protezione proprio in forza del considerando 36 del regolamento 953.

Una Commissione che dovrebbe essere il guardiano dei Trattati e delle norme UE e che – quando c’è da lasciar fare al nostro governo il lavoro sporco di usare il green pass per “incentivare” i cittadini ad un trattamento sanitario che sanno non poter rendere obbligatorio – si volta dall’altra parte.

Considerando che, soprattutto nell’ultimo decennio, non c’è stato aspetto della politica economica in cui non abbiamo dovuto subire le imposizioni e le raccomandazioni formali o informali (molto meglio agitare il bastone senza metterci la faccia) della Commissione, ora a Bruxelles sono tutti Ponzio Pilato.

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