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Giustizia, chi festeggia e chi strepita per la riforma Cartabia-Draghi

Fatti, opinioni e reazioni dopo l'approvazione della riforma del processo penale in Consiglio dei ministri

Quello di Libero sulla riforma del processo penale uscita dal Consiglio dei ministri con le modifiche da apportare al disegno di legge all’esame della Camera è naturalmente esagerato, più un desiderio perverso che altro: “Draghi arresta Bonafede e Travaglio”. Ma quest’ultimo, direttore del Fatto Quotidiano, ha mostrato di sentirsi davvero un detenuto fuori si sé per la rabbia immaginando sulla prima pagina del suo giornale Beppe Grillo in persona, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e quello dell’Agricoltura Stefano Patuanelli, capo della delegazione pentastellata al governo, adoranti e grati davanti ad un presidente del Consiglio che li ha messi in ginocchio. E mandato “in prescrizione i 5 Stelle” con quello che potrebbe essere chiamato il lodo Cartabia, dal nome della ministra della Giustizia e già presidente della Corte Costituzionale. “Calabrache, cedono a Draghi addirittura sulla giustizia”, ha gridato Marco Travaglio sul suo giornale contro i grillini, in concorrenza con le proteste tweet del solito Alessandro Di Battista in viaggio consolatorio o rigeneratore in Bolivia.

Il “gioco di prestigio” in qualche modo attribuito a Marta Cartabia anche da Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera per “stendere la mano” ai grillini in sofferenza, che hanno resistito in Consiglio dei Ministri sino al classico ultimo momento prima di cedere, è consistito nel chiamare “improcedibilità” la prescrizione, sostanzialmente abolita dall’ex guardasigilli Alfonso Bonafede all’atto della sentenza di primo grado. E nell’equiparare la corruzione e la concussione ai reati più gravi, per i quali la improcedibilità, appunto, scatterebbe con tre anni infruttuosi di appello, anziché due, e diciotto mesi di passaggio infruttuoso in Cassazione, anziché un anno.

Non contento di avere spalleggiato la guardasigilli in questo “gioco di prestigio”, o come altro si potrebbe chiamarlo, il presidente Mario Draghi, che Il Foglio ha rappresentato nel suo titolo in rosso come uno “schiacciasassi”, e Antonio Padellaro sul Fatto Quotidiano come un emulo del Duce che “eja eja, tira dritto”- prima ha sfidato i grillini partecipanti alla tormentata riunione del Consiglio dei Ministri a votare contro, e a ritrovarsi quindi in minoranza, e poi, una volta acquisitone l’allineamento, ad ammonire i loro gruppi parlamentari. “Nessuno – ha detto, in particolare, Draghi – può tenersi le mani libere in Parlamento”.

E’ un monito, quest’ultimo del presidente del Consiglio, che dovrebbe valere naturalmente anche per le altre componenti della maggioranza che hanno partecipato con i “nervi tesi”, per dirla col manifesto, o turandosi il naso, per dirla alla maniera del compianto Indro Montanelli, alla elaborazione delle pur sempre compromissorie modifiche necessarie a sbloccare finalmente il cammino parlamentare della riforma del processo penale. “Altra occasione persa”, ha titolato La Verità di Maurizio Belpietro, generalmente in sintonia con i leghisti. “Riforma a metà”, ha titolato Il Giornale della famiglia Berlusconi. “Riforma sofferta”, si è invece limitato a registrare Il Messaggero. Riforma “salvata da Draghi”, ha preferito puntualizzare la Repubblica analogamente alla Nazione e agli altri giornali del gruppo Monti-Riffeser, che hanno parlato di un “metodo Draghi” che “fa giustizia”. Ancora più compiaciuto e netto è il giudizio del Riformista con quel titolo su Draghi “che mette fine all’era Bonafede”, coincisa con i due governi presieduti da Giuseppe Conte. Di cui molti hanno riferito l’insoddisfazione, naturalmente, per l’accaduto.

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