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Germania Russia

Ecco cosa si dice in Germania sui casini in Russia

Ecco cosa pensano analisti e storici in Germania sulle ultime vicende nella vicina Russia.

In una Germania avara di reazioni politiche alle vicende che inquietano la Russia dallo scorso fine settimana, la parola passa agli esperti. Analisti, storici, studiosi di geopolitica, criminologi vecchi e nuovi, professori universitari provano a decifrare i movimenti palesi e soprattutto oscuri all’interno del caleidoscopio moscovita, per capire cosa si muove all’interno del corpaccione un tempo solido del regime putiniano.

IL LEGAME GEOGRAFICO (E NON SOLO) TRA GERMANIA E RUSSIA

La Russia è vicina. Geograficamente: appena 1.200 chilometri separano il confine tedesco orientale di Francoforte sull’Oder da quello occidentale russo di Zlynkovskij rajon, percorribili su una direttrice autostradale che attraversa Varsavia e il sud della Bielorussia. E politicamente: a lungo sponda orientale dell’Ostpolitik, potenza occupante della metà orientale della Germania nell’epoca della Guerra fredda, quindi partner commerciale e soprattutto energetico fino all’invasione dell’Ucraina di un anno fa.

Nonostante questo, “dopo il 1989 c’è stata una sorta di dismissione delle sezioni che si occupavano di Russia all’interno dei vari apparati di sicurezza tedeschi, tanto che negli ultimi anni era difficile trovare persone che parlassero la lingua russa”, lamenta Stefan Meister, direttore del Center for Order and Governance in Eastern Europe, Russia, and Central Asia della Dgap, la Deutsche Gesellschaft für Auswärtige Politik, uno dei think tank più prestigiosi e ascoltati dal governo tedesco. L’attenzione dei servizi si era spostata sul mondo islamico (senza mietere in verità grandi successi se ci si rammenta la vicenda dell’attentato al mercatino di Natale di Berlino del 2016), lasciando scoperto il fianco orientale dell’Europa: d’altronde la Russia era considerata un partner talmente affidabile da consegnarle le chiavi dell’approvvigionamento energetico tedesco.

LA DEBOLEZZA DEL REGIME DI PUTIN

Così oggi i tanti istituti di ricerca e delle università specializzate in Europa orientale sono in affanno a inquadrare gli avvenimenti moscoviti. Meister ci prova, parlando a una conferenza organizzata a Berlino dalla stampa estera. “A me la vicenda di Evgenij Prigozhin non pare una messa in scena, piuttosto una sorta di cigno nero per l’amministrazione Putin, un avvenimento che nessuno aveva previsto e che cambia alcune carte in tavola”.

Quel che emerge, secondo l’esperto della Dgap, “è la debolezza emersa del sistema Putin e sottolineata dal suo primo discorso televisivo, nel quale il presidente sembrava fuori dal mondo, come se non avesse compreso a pieno quel che stava accadendo”. Se quel che è avvenuto “non può probabilmente essere definito un colpo di Stato, ma più una sfida fra milizie private ed esercito regolare”, l’élite putiniana ha dato la sensazione di “aver perso il controllo della situazione”. Non è un bel segnale per loro.

“Il sistema non ha reagito”, la marcia di Wagner è avanzata indisturbata verso la capitale, non vi è stato alcun intervento da parte dei ministeri della Difesa o dell’Interno: una sensazione di paralisi in cui si è palesata la disillusione per l’andamento fallimentare della guerra in Ucraina che la solidarietà verso il potere minacciato, sostiene Meister.

UNA DITTATURA IN DECLINO

Da Berlino a Vienna, nell’aula dell’Institut für die Wissenschaften vom Menschen (Iwm), istituto fondato nel 1982 nella neutrale Austria e specializzato in studi storici e sociologici sull’Europa centro-orientale, due ospiti di eccezione hanno fornito a un auditorio affollato in sala e in collegamento virtuale: lo statunitense Timothy Snyder e il bulgaro Ivan Krastev.

“È iniziato il processo di declino di una dittatura, destinato a proseguire anche con episodi meno spettacolari di quello osservato nel fine settimana”, esordisce Snyder, che con le sue 23 lezioni allo Yale sulla formazione dell’Ucraina moderna riadattate in video su YouTube e in podcast su Spotify è divenuto una star mediatica. Per lo storico statunitense quel che si è visto richiama i momenti drammatici della caduta del fascismo in Italia, anche per alcuni lati paradossali e surreali: è curioso come i soldati della Wagner abbiano impiegato mesi per avanzare di pochi chilometri alla conquista di Bakhmut in Ucraina e invece appena poche ore per avanzare rapidamente da Rostov a Mosca, prima di fermarsi. “E il fatto che nessuno sia sceso per strada a Rostov a difendere Putin ci dice che forse fra i russi non è più così popolare come si crede”, aggiunge.

Un momento resterà fissato in quanto avvenuto nei giorni scorsi, riprende Snyder: “Quando  Prigozhin ha detto pubblicamente la verità sulle ridicole motivazioni che sono state date alla guerra, lui è l’unico che può vantare una vittoria sul campo, se vogliamo chiamare vittoria quella di Bakhmut”. E tuttavia l’epilogo della ribellione, l’accordo i cui contenuti reali sono velati da mistero così come il mantenimento delle promesse reciproche, è “una umiliazione per tutti i protagonisti, Putin ha vinto senza aver vinto, Prigozhin ha perso senza aver perso, Lukashenko è entrato nel gioco come terzo incomodo, e alla fine la Russia è stata umiliata”.

Un triangolo cui Krastev pone attenzione. “Siccome Prigozhin voleva parlare con Putin ma Putin non voleva parlare con Prigozhin, allora il capo del Cremlino ha chiesto che fosse un altro presidente a parlare con lui”. Quel che si è svolto sotto gli occhi del mondo va spiegato secondo Krastev con i codici delle leggi criminali, un po’ quelle che dominano i telefilm sulle tv di Stato russe di cui l’intellettuale bulgaro dice di essere grande appassionato. “Putin d’altronde non ha permesso che dalla narrativa della guerra emergesse un generale eroe e Prigozhin si è preso la scena”, prosegue Krastev, per il quale in fondo “tutte le cospirazioni sono destinate a finire in paranoia”. Putin non bluffava quando descriveva nelle prime settimane l’intervento in Ucraina come un’operazione speciale, ma le cose sono andate diversamente e la guerra lampo non c’è stata: “Oggi Putin non combatte più per sconfiggere l’Ucraina, ha capito che non è più possibile e ha cambiato in estate registro, raccontando che adesso combatte l’Occidente”.

PERCHÉ IL VOTO NEGLI STATI UNITI È DECISIVO

Con lo sguardo al futuro, Snyder considera un passaggio decisivo il voto negli Stati Uniti il prossimo anno: Biden si è mostrato un presidente assai migliore non solo di quel che si immaginava, ma anche di alcuni suoi predecessori, non solo di Donald Trump ma anche di Barack Obama, la cui politica in occasione dell’annessione russa della Crimea è stata fallimentare. Poi ammonisce sulle paure occidentali per la minaccia nucleare: non è vero che le potenze nucleari non possono perdere le guerre, la storia degli ultimi decenni è anzi piena di potenze nucleari che hanno perso le loro guerre, Stati Uniti in testa. “Piuttosto”, ammonisce lo storico americano, “sollevare la paura di una reazione nucleare russa serve agli europei come diversivo per evitare di pensare alle atrocità che giorno dopo giorno le truppe russe commettono nella guerra in Ucraina, dalle violenze alle donne alla castrazione agli uomini, al rapimento dei bambini, alla deportazione di intere popolazioni”. Una comfort zone un po’ ipocrita.

Krastev, che oltre a essere un politologo esperto di Europa orientale dirige a Sofia il Centre for Liberal Strategies, osserva che le reazioni dei popoli europei alla minaccia russa ricalcano non tanto le posizioni dei rispettivi paesi durante la Guerra fredda, ma quelle durante il periodo degli imperi. Baltici e polacchi sono estremamente sensibili perché erano sotto l’impero zarista, mentre nei Balcani, ad esempio, le posizioni sono più blande giacché si era sotto l’impero ottomano. È lì che vanno ricercate le paure verso Mosca.

IL FALLIMENTO TOTALE DEL CREMLINO

Ritornando a Belrino, ancora alla Dgap, Andreas Racz, esperto di est Europa, aggiunge un ulteriore tassello intervenendo al briefing mattutino organizzato dal think tank berlinese per discutere degli sviluppi in Russia. “L’inabilità a reagire alla minaccia da parte del sistema russo è l’elemento più evidente della vicenda”, dice Racz, “il Cremlino aveva tecnicamente a disposizione tutte le possibilità di fermare sul nascere la marcia dei mercenari Wagner, ma non lo ha fatto, nessuna unità militare è stata attivata per bloccare i ribelli”. Un fallimento dell’intero sistema di sicurezza, interno e militare, cui va aggiunta la fuga in quelle ore di tanti siloviki da Mosca: “Non si contano i voli privati decollati dagli aeroporti della capitale e la velocità con cui hanno abbandonato Mosca è piuttosto indicativa degli umori che ci sono”.

La partita della Wagner non è però ancora conclusa, su questo concordano un po’ tutti gli esperti fra berlino e Vienna. “Tanti di loro sono in giro e armati”, conclude Racz, “alcuni lasceranno per non finire agli ordini dell’esercito russo, molti attenderanno di capire se si possono fidare delle promesse fatte”. Resta l’incognita Bielorussia, mentre una parte dei mercenari potrebbe riprendere le attività fuori dall’Ucraina, in altre regioni del mondo dove sono ancora attivi, tipo l’Africa.

Quanto all’Occidente, una cosa è chiara: non vi è alcuna possibilità di influenzare gli eventi a Mosca, ma è possibile decidere il futuro dell’Ucraina. Ora ci vuole un piano chiaro e coraggioso, per sostenerla ancora di più nel conflitto e per darle una prospettiva europea per il dopo. L’unico modo per sperare di incidere nelle svolte russe è di fare una buona politica per Kiev.

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