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Caro Fmi, non esiste una finanza sana in un’economia reale malata

Il commento di Gianfranco Polillo sugli ultimi moniti del Fondo monetario internazionale (Fmi) all’Italia Alle principali forze politiche italiane, ancora prigioniere delle loro promesse elettorali, il recente monito del Fondo monetario internazionale deve essere sembrato un messaggio indecifrabile. Rumori venuti da una galassia lontana, che i grandi telescopi riescono a captare, ma non a tradurre…

Alle principali forze politiche italiane, ancora prigioniere delle loro promesse elettorali, il recente monito del Fondo monetario internazionale deve essere sembrato un messaggio indecifrabile. Rumori venuti da una galassia lontana, che i grandi telescopi riescono a captare, ma non a tradurre in chiaro. Eppure non sarebbe così difficile tuffarsi per un attimo nella realtà per cogliere le luci e le ombre della situazione italiana. Per poi confutare, come sarebbe giusto fare, le ricette che sono state dispensate.

La “priorità” per l’Italia – sostiene il Fondo – è un piano di risanamento di bilancio “credibile e ambizioso” al fine di contenere l’eccesso di debito pubblico e ridurlo progressivamente. Qualche passo avanti in questa direzione è stato compiuto, ma gli sforzi sono stati ancora insufficienti.

Le previsioni parlano della possibilità di giungere al pareggio di bilancio, non nel 2020 com’era previsto, ma l’anno dopo. Cala anche il debito dal 130 al 129,7 per cento, nel 2019. Ma questo dipenderà soprattutto se il deficit di bilancio risulterà essere pari allo 0,9 per cento, per far crescere l’avanzo primario al 2,5 per cento.

Le previsioni, com’è ovvio, sono a legislazione invariata. Non scontano cioè né l’abrogazione della legge Fornero, né il “salario di cittadinanza”: assi strategici delle principali formazioni politiche italiane. Solo così la spesa pubblica potrebbe stabilizzarsi, passando dal 48,2 per cento (previsione per il 2018) al 48,4 l’anno successivo. Rendendo possibile un contenuto aumento delle entrate erariali: dal 46,7 per cento del 2018 al 47,5 del 2019. Margini stretti, come si vede. Con qualche preoccupazione per il maggior salasso fiscale.

Verrebbe quasi da dire, viste le proposte in controtendenza preannunciate, che sarebbe meglio lasciare le cose come stanno. Evitando cioè di mettere in cantiere misure rivolte a peggiorare un quadro finanziario tutt’altro che roseo. Specie se si tiene conto del rallentamento possibile nei ritmi di crescita complessiva. Pericolo che non riguarda solo l’Italia, ma l’intera realtà internazionale, la cui stabilità finanziaria – sempre a giudizio del FMI – solleva più di un allarme.

C’è poi il grande tema delle banche. Le relative sofferenze sono eccessive, dato che i non performing loans nell’Unione Europea ammontano a 900 miliardi. La maggior parte concentrati in Italia, Spagna ed Irlanda. Ridurli è un’esigenza irrinunciabile, considerato che a fronte di questa massa debitoria pesa un macigno, rappresentato dall’ammontare dei debiti sovrani pari a 164 mila miliardi: il 225 per cento del Pil complessivo. Per cui venirne a capo non sarà facile, se non altro a causa del disordine che in alcuni Paesi – l’Italia è tra questi – caratterizza la giustizia amministrativa.

Ma visto che alcune scelte saranno, comunque, inevitabili, considerata l’evoluzione della situazione politica italiana, ecco allora i possibili rimedi. Il FMI offre un vero e proprio menù, che mette a disposizione dei commensali. Occorre – sostengono – aumentare gli investimenti pubblici, spostare la tassazione verso la ricchezza e gli immobili al fine di ampliare la base imponibile. Ridurre la spesa pubblica (inclusa l’elevata spesa pensionistica) per trovare lo spazio finanziario necessario per far fronte a politiche inclusive. Nessun accenno, invece, alle contraddizioni di un quadro macroeconomico, caratterizzato da un avanzo eccessivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti.

La stretta finanziaria – perché di questa si tratta – è utile quando la bilancia commerciale mostra un passivo. Vale a dire quando le importazioni superano le esportazioni. In questo caso la produzione nazionale non è in grado di soddisfare pienamente la domanda interna. Quindi la maggiore spesa dei residenti è compensata dal flusso di importazioni nette. Casi del genere sono numerosi nella realtà internazionale, a partire dagli Stati Uniti, colpiti al cuore da un double deep (deficit di bilancio e deficit commerciale). Ma lo stesso vale, ad esempio per la Francia. In Italia, invece, come in Germania, si verifica l’opposto. Nel caso italiano il saldo commerciale non solo è positivo, ma ha raggiunto, lo scorso anno, un livello pari a 50 miliardi: oltre il 2,5 per cento del Pil.

Le cause dell’eventuale passivo commerciale sono riconducibili fondamentalmente a due elementi: una politica salariare troppo disallineata dai sottostanti livelli di produttività oppure una spesa pubblica debordante. O l’insieme di tutti e due. Non sembrano essere questi i motivi della perdurante crisi italiana. Essa è dovuta semmai alla bassa “produttività totale dei fattori”. Vale a dire alla mancanza di quegli investimenti che, giustamente, il Fmi chiede di aumentare. Ma che, nel breve periodo, possono derivare solo da una rinnovata presenza dello Stato in grado di realizzare ciò che il mercato da solo non è in grado di garantire. Stante, tra l’altro, gli eccessivi livelli di tassazione.

Quindi vanno bene i moniti. Ma, per favore, non continuiamo a ragionare per compartimenti stagni. Non esiste una finanza sana in un’economia reale malata. Le due cose sono tra loro complementari ed interdipendenti.

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