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Tunisia

Schlein? Degna erede della vecchia cultura massimalista

"Elly Schlein doveva vincere: occorreva fermare la “resistibile ascesa” di Stefano Bonaccini, l’orrendo riformista che, nonostante la sua prudenza, ricordava troppo da vicino Matteo Renzi". L'analisi di Gianfranco Polillo

Nessuna sorpresa. Tra i post-comunisti, ma lo stesso era accaduto tra i comunisti, è più facile diventare Presidente della Repubblica che non segretario del partito. La storia di Giorgio Napolitano insegna. Alla morte di Enrico Berlinguer era, indubbiamente, il leader più prestigioso. Gli fu invece preferito Alessandro Natta: “Illuminista, giacobino e comunista”, come piaceva definirsi. Amante delle belle lettere, latinista, uomo di grande cultura classica, ma non certo dotato del carisma del suo predecessore. Il suo mandato durò quattro anni. Nel giugno del 1988 fu costretto a rassegnare le dimissioni, a seguito di un infarto che lo aveva colpito qualche mese prima. Ancora una volta sembrava che il testimone fosse destinato a passare nelle mani di Giorgio Napolitano. Ed invece fu la volta di Achille Occhetto.

Natta non era stato un innovatore. Ma un “leader in grigio molto togliattiano”, come aveva scritto di lui Lietta Tornabuoni. Al punto da recarsi a Mosca nel 1988, su pressioni di Armanno Cossutta, il più filosovietico dei dirigenti comunisti. Occhetto, al contrario, era tutto “innovazione”. Nella sua lunga carriera politica non aveva mai esitato ad assumere posizioni eterodosse, destinate a scuotere il corpaccione del suo partito, specie sui temi della democrazia e della critica al regime sovietico. Per questo era, al tempo stesso, amato e detestato. Recuperava, tuttavia, rispetto ai riformisti (comunisti di destra) con il suo movimentismo, fondato sull’idea che il partito dovesse mettersi alla testa di una carovana in viaggio verso un più radioso avvenire.

Per quelle strane congiunture astrali, divenne segretario del Partito proprio negli anni in cui crollava il muro di Berlino. E fu ancora una volta il suo coraggio ad imporre quel cambiamento che passerà alla storia con il nome della “svolta della Bolognina”. Per capirne la portata, è necessario ritornare a quei tempi. Prima di quel famoso discorso, i riformisti del PCI erano in grande difficoltà. Messi ai margini di fronte ad una sinistra arrembante, che li condannava all’emarginazione e a propositi di exit. La svolta della Bolognina li rimise in gioco, fornendo loro l’occasione per riconquistare un diritto di cittadinanza che sembrava perduto. Nel duro scontro politico che ne seguì, furono determinanti nell’appoggiare il nuovo corso. E la trasformazione del PCI nel PDS: “Partito democratico di sinistra”. Mentre quasi un terzo dei militanti del vecchio partito aderiva alla nuova formazione di Armando Cossutta: il Partito della rifondazione comunista.

TRA OCCHETTO E D’ALEMA

Occhetto rimase segretario dal 1991 al 1994: anno in cui si svolsero le elezioni politiche, che videro la nascita di Forza Italia e la discesa in campo di Silvio Berlusconi. La sua, come leader della coalizione di sinistra “Alleanza dei progressisti”, fu una dura sconfitta, maturata sull’onda di alcune parole d’ordine come quelle sulla “gioiosa macchina da guerra”, che contribuirono alla vittoria del fronte opposto: “il Polo delle libertà e del buon governo”. La resa dei conti, interna al partito, portò alla segreteria Massimo D’Alema, da tempo in forte polemica con il segretario. Che nel frattempo aveva deciso di valorizzare Walter Veltroni. Più giovane di Massimo D’Alema, ma anche meno ingombrante dal punto di vista politico per la sua aria liberal, contro l’immagine un po’ retrò del suo diretto competitore.

La contesa, dopo una sorta di referendum interno che non portò ad alcun risultato, fu decisa dal Consiglio nazionale. Massimo D’Alema fu eletto con 249 voti, contro 173. Veltroni pagò lo scotto di essere stato troppo vicino ad Achille Occhetto, al quale gran parte del partito attribuiva l’eccessiva radicalità delle scelte, in campo internazionale, e la sconfitta elettorale subita. Dopo aver dato l’impressione che la vittoria, vista la mattanza di “mani pulite” nei confronti dei partiti storici italiani (DC, PSI, PRI), fosse a portata di mano. Con D’Alema, segretario del partito, si rientrò nel solco della tradizione. La definitiva implosione dell’URRS aveva creato le condizioni per far sì che la vecchia politica togliattiana – l’incontro tra le masse comuniste e quelle cattoliche – potesse finalmente realizzarsi. Ma in forma ben diversa rispetto a quanto, in passato, si fosse pensato.

L’EGEMONIA CULTURALE PASSA AI CATTOLICI

Con la nascita dell’Ulivo, voluto da Romano Prodi, ex esponente della Sinistra DC, l’egemonia politica culturale si sposta rapidamente dai post comunisti ai cattolici, facendo venir meno l’ipotesi che aveva sorretto l’impalcatura della “via italiana al socialismo”. In cui il bastone del comando doveva spettare al partito comunista, in quanto espressione diretta della classe operaia. Che, tuttavia, proprio in quegli anni, aveva conosciuto un progressivo ridimensionamento numerico e culturale. Più attrezzati dal punto di vista del governo, i cattolici godevano dei favori dell’establishment economico e finanziario del Paese. Preoccupato per la discesa in campo di Silvio Berlusconi, portatore di un evidente conflitto d’interessi, gran parte di quel mondo aveva scelto di appoggiare il centro sinistra, rafforzando la presa della componente non comunista.

Alle prime elezioni, dopo la breve parentesi berlusconiana del 1994, l’Ulivo conquista Palazzo Chigi. Prodi diventa Presidente del consiglio. Walter Veltroni, con la sua allure liberal, è il vice presidente. D’Alema mastica amaro. Farà di tutto per rivendicare per sé la carica di premier, nel tentativo di rovesciare il duro verdetto della storia. Ci riuscirà nell’ottobre del 1998, ma ballerà solo per poche stagioni. In compenso Walter Veltroni assumerà la carica di segretario del partito. Che, nel frattempo avrà cambiato nuovamente nome, per divenire “Democratici di sinistra”. Suo merito: la scelta di Carlo Azeglio Ciampi alla Presidenza della Repubblica. Che non basterà, tuttavia, ad evitare la sconfitta del 2001, quando i post comunisti, raggiungeranno il loro minimo storico: 16,6 per cento dei voti.

Da quel momento sarà l’inizio di una fase più che concitata. Se si esclude la segreteria di Piero Fassino, che durerà quattro anni, nel corso dei quali il Partito cambierà ancora una volta nome per diventare “Partito democratico”, gli incarichi successivi avranno un andamento frenetico ed una durata imprevedibile. Due anni per la rinnovata presenza di Walter Veltroni. Nove mesi soltanto per Dario Franceschini. Di nuovo quattro anni per Pierluigi Bersani, ma solo sette mesi per Guglielmo Epifani. Con Matteo Renzi si torna alla tradizione di qualche anno: dal 2013 al 2018, ma con un breve interregno di un paio di mesi di Matteo Orfini. Poi Maurizio Martina: 8 mesi. Ed infine Nicola Zingaretti ed Enrico Letta: due anni ciascuno.

SCHLEIN L’OUTSIDER (DAVVERO?)

Al termine di questa lunga trafila, il successo di Elly Schlein, che più outsider di così sarebbe impossibile immaginare. La sua iscrizione al partito risale al dicembre dello scorso anno. Una delle tante “stravaganze” che hanno caratterizzato la sua vita politica, rispetto al modello prevalente in quella forma – partito chiamata a dirigere. Ma questa scelta non deve meravigliare. Occorreva fermare la “resistibile ascesa” di Stefano Bonaccini, l’orrendo riformista che, nonostante la sua prudenza, ricordava troppo da vicino Matteo Renzi, oppure, andando più in là nel tempo, quella di Bettino Craxi. Di coloro cioè che, nel loro presente storico, risultavano, a loro volta, essere troppo vicini a figure come quelle di Karl Kautsky o Eduard Bernstein. Revisionisti. Bestie nere per quella vecchia cultura massimalista, così dura a morire.

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