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Ecco la sciocchezzona di Travaglio su Mani Pulite

Perché apprezzo poco, anzi nulla, del libro "Mani Pulite" di Marco Travaglio. Il commento di Gianfranco Polillo

 

Se fossimo ai tempi di “Quaderni piacentini”, paludata rivista della sinistra snob, l’ultimo libro di Marco Travaglio, Peter Gomez e Gianni Barbacetto (ordine invertito per tener conto della caratura dei singoli coautori) “Mani pulite” sarebbe stato collocato tra quelli da “non leggere”. Noi siamo più tolleranti e non arriviamo a tanto. Per chi ama leggere una sorta di mattinale, troverà in quel migliaio di pagine (per l’esattezza 912) una miriade di notizie e la descrizione di altrettanti episodi descritti con la lente dell’inquisitore.

Vi troverà anche lontane reminiscenze. Quel lungo saggio degli stessi autori (allora era di 712 pagine), edito venti anni fa ed ora ripubblicato, con qualche aggiunta, per ricordare quel lontano giorno di 30 anni fa – era il 17 febbraio del 1992 – quando Mario Chiesa, il “mariuolo”, secondo la definizione di Bettino Craxi, fu preso con le mani del sacco. Dando origine a quella grande mattanza che sarà poi “mani pulite”. C’è quindi da aspettarci un futuro aggiornamento – non sapremo se fra cinque o dieci anni – per celebrare nuovamente la ricorrenza.

Qualcuno potrà sospettare in questa insistenza una sorta di ossessione. La verità è più prosaica. Quella di Travaglio & Co è un’attività che rende. Continua a solleticare una parte – si spera sempre minore – di opinione pubblica, che ovviamente, nel grande mercato della comunicazione, si dimostra sensibile a quei prodotti. Probabilmente quest’attività non li porterà ai vertici del potere, ma, come cantava Edoardo Bennato, si può anche vivere di sole “canzonette”. Che, tuttavia, per funzionare devono rispondere ad un minimo di canoni estetici.

Il nuovo/vecchio testo supera la prova del budino? I dubbi sono tanti e numerosi. Nell’immaginario di Travaglio l’epopea di “mani pulite” rappresenta il “capitolo più luminoso” della storia italiana degli ultimi trent’anni. Difficile capire su quali basi si fondi questo giudizio: sul coinvolgimento forse di oltre 3.800 persone in vicende di malaffare? Dovrebbe essere considerata una storia triste, altro che luminosa, considerato da quanto tempo essa durava. La vicenda del Pio Albergo Trivulzio fu solo la punta dell’iceberg, la cui piattaforma sommersa aveva caratterizzato l’intera storia del dopoguerra italiana.

Da un lato “l’oro di Mosca” dall’altro i finanziamenti americani. Su un fronte le donazioni delle grandi imprese a favore soprattutto dei partiti governativi, sull’altro l’azione delle cooperative rosse verso le opposizioni di sinistra. In entrambi i casi finanziamenti illegali, ma tollerati in quanto esso stessi figli di una guerra che si combatteva nella dura contrapposizione tra l’Occidente e l’Impero del male. Soldi che servivano per mantenere le “truppe”. Quei milioni di militanti destinati, da entrambi le parti, a mantenere viva l’impossibilità che si potesse pervenire ad una qualche vittoria degli uni sugli altri.

C’era qualcuno che si arricchiva? Certo che c’era. Ma tollerarlo era inevitabile se si voleva far funzionare il sistema nel suo complesso. “Mani pulite” hanno solo scoperchiato questo gigantesco verminaio. Noto da tempo, ma tollerato nel nome di un’esigenza superiore. Evitare al Paese guai peggiori, come quelli che potevano derivare da un suo repentino cambiamento di fronte, seppure determinato dai risultati di libere elezioni. Chi, come nella Grecia dell’immediato dopoguerra, non aveva tenuto conto del vincolo internazionale aveva pagato duramente quell’atto d’orgoglio.

Ed ecco allora svelato il mistero dell’improvvisa presa di coscienza nazionale. Il momento della verità non fu il 1992, ma il 1989 con la caduta del muro di Berlino e la “fine della storia”, come si azzardò a dire qualcuno. Non di quella universale, ma di quella del ‘900 con le sue enormi contraddizioni. Un’Italia, finalmente liberata, poteva fare i conti con se stessa, e porre fine ad un sistema che, nel frattempo, era degenerato.

Travaglio & Co pensano invece che quella svolta fu determinata dalla dimensione della corruzione, che aveva svuotato le casse dello Stato. Con il dovuto rispetto: una sonora sciocchezza, senza nulla togliere alla dimensione effettiva dei fenomeni corruttivi. Ma nella logica dei grandi numeri, che descrivono gli equilibri macroeconomici di un Paese, sono altri i fenomeni che portano alla crisi. E dal 1992 in poi fu soprattutto la riunificazione tedesca a mettere in crisi il Sistema monetario europeo, espellendo i Paesi più fragili: la Gran Bretagna, l’Italia, la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda.

E chi volle resistere, come la Svezia fu costretta ad elevare al 500 per cento i tassi d’interesse a breve. Furono questi avvenimenti, del tutto indipendenti dalla corruzione, a determinare in Italia quella reazione popolare che consentì al pool di Milano di portare avanti il lavoro, vincendo quelle resistenze che, in passato, avevano (dalla P2 ai fondi neri dell’Iri) tutto insabbiato.

Di tutto ciò non esiste traccia nel poderoso tomo dei nostri eroi. Siamo portati a conoscere i particolari più insignificanti della quotidianità. Ma nessun accenno a quei fondamentali in grado di condizionarne il relativo sviluppo. Compito degli analisti e degli storici: si dirà. Non dei cronisti. Ma allora che serve sorbirsi quasi mille pagine, se non è chiaro il senso della storia raccontata?

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