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Ecco come e quanto gli Stati Uniti sono dipendenti dai farmaci della Cina

Trump riuscirà a tagliare i farmaci cinesi dal mercato Usa? L'approfondimento del South China Morning Post

Nelle ultime settimane, man mano che si faceva più duro il braccio di ferro tra Washington e Pechino e avanzava la discussione sul decoupling, in Cina c’è stato qualcuno che ha cominciato a dibattere quella che il South China Morning Post in un lungo articolo che ha definito l’opzione “nucleare”: tagliare i farmaci cinesi dal mercato Usa.

LA REAZIONE DELLA CINA

L’idea è stata avanzata inizialmente da Li Daouki, un accademico un po’ fuori dagli schemi, per il quale tale mossa costituirebbe la legittima ritorsione di Pechino di fronte ai continui sanzioni e bandi varati da Washington in questi mesi e in particolare contro il divieto di esportazioni di tecnologia, il più micidiale colpo basso tirato dagli Usa alla Cina in questi ormai tre anni di scontro commerciale.

All’inizio non molti hanno preso sul serio le parole di questo eccentrico professore col dente avvelenato nei confronti dell’America. Poi qualcuno si è fatto due conti e ha scoperto quel che è noto da un pezzo, ossia che il mercato americano è fortemente dipendente nel settore farmaceutico dalle produzioni cinesi.

LA DIPENDENZA USA DALLA CINA

Molti degli ingredienti chiave per realizzare gli antibiotici non sono ad esempio più prodotti da tempo negli States, dove l’ultimo produttore degli ingredienti da penicillina ha chiuso i battenti nel 2004. L’America inoltre l’anno scorso ha importato dalla Cina il 40% dei suoi antibiotici, secondo i dati forniti dalla US International Trade Commission.

IL RUOLO DELLA CINA NELLE MEDICINE

Con ben 11 mila aziende sul territorio, Cina è inoltre il più grande produttore dei precursori cosiddetti API (active pharmaceutical ingredients) usati come elementi per realizzare le medicine. Secondo le stime della Food and Drug Administration, circa l’80% dei precursori usati in America viene dalla Cina.

La posizione mondiale della Cina nella farmacopea mondiale è tale che persino l’India, che fornisce agli Usa il 40% dei suoi API, ne importa il 75% da Pechino.

Tutto questo lascia intuire la forte vulnerabilità dell’America, e il potere di ricatto che la Cina ha nei suoi confronti. Come spiega Zhang Weiwei, docente di relazioni internazionali alla Fudan University, “tutti gli ospedali negli Usa sarebbero costretti a chiudere senza le forniture cinesi”.

I NUMERI DELLE CONNESSIONI USA-CINA

L’anno scorso la Cina ha esportato negli Usa circa 10 miliardi di dollari in forniture mediche e 7,4 miliardi in derivati chimici, che includono gli ingredienti per i farmaci e per gli antibiotici, secondo i dati forniti dalle dogane cinese.

In una simile situazione, se la Cina dovesse davvero ricorrere all’opzione nucleare, per gli Usa sarebbe pressoché impossibile ricollocare la manifattura o trovare fornitori alternativi in tempi brevi, sottolinea Shi Yinhong, docente di relazioni internazionali all’Università cinese di Renmin e consigliere del Consiglio di Stato.

Ma anche le aziende cinesi pagherebbero dazio, sottolinea ancora Shi, trovandosi da un giorno all’altro senza il cliente principale: la moria sarebbe sicura.

Per non parlare del fatto che l’ira del colosso Usa si innalzerebbe alle stelle, innescando chissà che girandola di ritorsioni e controritorsioni.

CHE COSA PERDEREBBE LA CINA

La Cina inoltre ci perderebbe una terza volta perché innescherebbe una ricollocazione globale dell’industria farmaceutica che intaccherebbe il suo primato nel settore, come rileva Zhao Daojiong, docente alla Scuola per Studi Internazionali dell’Università di Pechino, che definisce l’opzione nucleare “autolesionistica”.

Naturalmente negli Usa sono perfettamente consapevoli di questo dibattito e del rischio che corrono, e questa consapevolezza si è amplificata durante l’emergenza Covid-19, che ha messo a nudo tutti i limiti del modello Usa.

LA PROPOSTA DI LEGGE

Per questo a luglio la speaker della Camera Nancy Pelosi ha introdotto insieme al senatore Marco Rubio una proposta di legge che istituirebbe una commissione di studio incaricata di vagliare le modalità con cui venire a capo della questione.

A tal proposito, Rachna Shah, docente dell’Università del Minnesota, ricorda che i motivi originari per assecondare la delocalizzazione dell’industria farmaceutica erano i costi e le regolazioni più lasche. Ora che però tutti hanno capito quale sia la posta in gioco, prosegue la docente, “penso che il governo possa cambiare posizione e decidere di riportare indietro la manifattura (…). Ci vorrà un po’ di tempo, ma nel lungo termine saremo Ok perché gli Usa hanno sia i capitali che le capacità in ricerca e sviluppo”.

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