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Tunisia

Da Berlinguer a Conte: molti auguri ai post comunisti

Evoluzione o involuzione della sinistra post comunista secondo Gianfranco Polillo

Da Enrico Berlinguer a Giuseppe Conte il salto all’indietro è siderale. Un po’ meno se si pensa ad Achille Occhetto, a Massimo D’Alema o Walter Veltroni. Non ce ne vogliano gli altri segretari, ma da allora il declino, non solo elettorale, era già evidente. Una volta, infatti, la sinistra era progressista, capace di coniugare questa nobile “prassi” (Antonio Gramsci) con le 50 sfumature di grigio, in grado di rapire ed affascinare.

Guardava al futuro. Anticipava il domani, sperando di piegare quel “legno storto” in un disegno di geometrica potenza. Mondrian e non Pollock. Alla base della piramide, la Grande Utopia. La rivoluzione in quel tempo sospeso, che andava dalla Comune di Parigi, all’assalto del Palazzo d’inverno. Quindi la “lunga marcia” ed i cento Vietnam di Che Guevara. Dopo di che, il nulla, se non le tragiche figure di Chavez e Maduro: le ultime degenerazioni di quella grande idea.

In Italia, nel frattempo, si passava dalla resistenza al compromesso badogliano. Il “vento del nord” che, a Salerno, cessava di spirare. Togliatti e la sua doppiezza, per il bene dell’Italia ed i desiderati della Terza internazionale. Nella segreteria del Partito, Pietro Ingrao e Giorgio Amendola: gli opposti di una tenaglia tenuta insieme dalla logica ferrea del centralismo democratico. Che sopravviverà fino alla segreteria di Achille Occhetto. Senza per altro concedere piena cittadinanza al riformismo. Anzi al “miglioriamo” come veniva definito, con una punta di disprezzo, dai dirigenti di Botteghe oscure.

Non è facile capire quando quella visione, che comunque voleva essere anticipatrice, sia venuta meno. Probabilmente a metà degli anni ‘70. Quando si incrociarono due distinte questioni: quella dell’austerità e dell’ingresso, anche in Italia, dopo anni di tribolo, della TV a colori. L’idea che dalla crisi di quegli anni, caratterizzata da una forte inflazione e dal deficit profondo della bilancia dei pagamenti, si potesse uscire solo comprimendo i consumi, fu lanciata prima da Luciano Lama, quindi da Enrico Berlinguer.

L’idea era quella di poter far sbocciare nella crisi una nuova moralità. Costruita sulla sobrietà dei consumi, ma di fatto offerta come garanzia ai ceti dominanti. Sindacato e Partito avrebbero frenato, per favorire quel “compromesso” che doveva porre fine alla vecchia “conditio ad escludendum”. In quegli anni il Midas era ancora lontano. Il comitato centrale che avrebbe portato alla sostituzione di Antonio De Martino con Bettino Craxi si svolse nel luglio de 1976. Ma prima che si affermasse una nuova linea politica, non più subalterna al PCI, ci volle un periodo di rodaggio. Il saggio su Proudhon, che aprí le ostilità, fu pubblicato sull’Espresso nel 1978.

Sulla TV a colori stessa storia, anzi peggio. Era stata rinviata da anni, grazie ad un emendamento presentato dalla sinistra nel 1967. Una moratoria di 5 anni. Al termine della quale il PCI, il sindacato, Ugo La Malfa continuarono la loro battaglia contro quello strumento del demonio, che alimentava il consumismo, quando invece si doveva investire nei servizi sociali o nei consumi di massa. Un ritardo che non comportò solo l’abbandono del settore all’industria straniera. Ma l’insorgere di quel pregiudizio che, negli anni successivi, si concretizzò in un’ostilità crescente contro Silvio Berlusconi, ancor prima che questi decidesse il grande balzo nella politica.

C’era un’altra via d’uscita alla crisi degli anni ‘70? Era a portata di mano. Bastava far leva sugli animal spirits invece di rinchiuderli nel recinto dell’austerity. C’erano le condizioni sociali? Almeno in una parte del Paese, ch’era pronta ad scommettere sul cambiamento di paradigma — ICT e globalizzazione — che da lì a poco avrebbe cambiato il mondo. Erano i ceti emergenti, le professioni innovative, soprattutto nel Nord del Paese. Quella “Milano da bere”, secondo uno spot pubblicitario dell’epoca. Poi divenuta l’oggetto di una condanna senza appello.

Fu il nuovo gruppo dirigente socialista, rompendo l’antico rapporto ancillare di sottomissione nei confronti del PCI, a cambiare linea. Un paradosso, se si considera che in passato era stato soprattutto il PSI a cimentarsi con la fatica della programmazione e delle riforme. Nonostante lo scherno delle altre componenti della sinistra. L’idea non era più quella di dirigere, imporre, predeterminare, ma semplicemente quello di governare il cambiamento. Ossia interagire con un processo spontaneo, non più prodotto dalla presunta onnipotenza della politica, ma dal movimento spontaneo della società.

Una rivoluzione copernicana che il PCI non comprese ed osteggiò. Una mutazione genetica, come disse Enrico Berlinguer, per condannare un fenomeno configgente con il vecchio indirizzo dirigista. Una contesa che da allora ammetteva solo una possibile soluzione: l’abiura degli eretici. Ed il loro ritorno, come semplici cespugli, sotto la grande quercia post comunista. Come se il mondo non continuasse a cambiare con una velocità maggiore rispetto ai tentativi teorici di imbrigliarlo per imporgli la direzione voluta. E tutto ciò non determinasse un progressivo smarrimento.

È il dramma che continua a condizionare, ancora oggi, i dirigenti post comunisti. Fermi, nonostante la crisi, nella difesa statica dell’esistente. L’eredità ricevuta in dono è stata progressivamente dispersa. Basta guardare ai sondaggi, oltre che ai risultati di tante elezioni. Quando Goffredo Bettini era il segretario della Federazione romana, a metà degli anni ‘80, il PCI aveva il 27/28 per cento dei voti. Ed il PSI di Craxi oltre il 14 per cento. Oggi i socialisti sono praticamente scomparsi, mentre il PD, nelle ultime elezioni, non ha raggiunto il 20 per cento.

Voti confluiti, in larga misura nel Movimento dei 5 stelle, dopo le deludenti prove dei governi della passata legislatura. Ma da questi ultimi, almeno stando ai sondaggi, già buttati al vento. Ed ecco allora il perseverare nell’errore. Non seguire la strada tracciata da Matteo Renzi, che incardina sempre più quella tradizione riformista più volte ripudiata, ma essere disposti ad amalgamarsi con quel che resta del MoVimento, chiamando Giuseppe Conte a fare da garante, con i gradi del generale. Nella speranza che la storia si possa invertire. Personalmente, ne dubitiamo. Ma comunque: auguri.

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