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Tunisia

Ecco le ragioni (economiche) della crisi del governo Draghi

E' la richiesta (non solo del Movimento 5 Stelle) di uno scostamento di bilancio a mettere anche in crisi il governo Draghi. L'analisi di Gianfranco Polillo

La più lesta era stata la vice segretaria generale della Cgil, Gianna Fracassi, durante l’audizione presso le Commissioni riunite Bilancio di Camera e Senato in merito all’esame del Documento di economia e finanza 2022. Era lo scorso 12 aprile. Le risorse previste, aveva tuonato “non sono comunque sufficienti per rispondere all’emergenza sociale che rischia di penalizzare le classi più vulnerabili. Per questo riteniamo sia necessario un ulteriore scostamento di bilancio”.

Più introverso Giuseppe Conte, nella lettera con i suoi nove punti, consegnata a Mario Draghi, il 6 luglio. In cui la richiesta di uno scostamento di bilancio era derubricata a pag.4 ed espressa in forma quasi onirica: “Le abbiamo chiesto più volte uno scostamento di bilancio”.

Decisamente più puntuta, invece, la posizione sindacale durante l’incontro con il Premier a Palazzo Chigi. Unanime la richiesta, secondo quanto riportano le agenzie, di “valutare entro dicembre la necessità di procedere anche a uno scostamento di bilancio.” Essendoci “convergenza per affrontare questo argomento insieme”.

Resta infine da considerare la posizione della Lega, espressa in modo ruvido da Matteo Salvini: “Ho letto che Draghi ha detto che non c’è bisogno di uno scostamento di bilancio, di un intervento pesante. Io penso l’esatto contrario. O si mettono 50 miliardi veri nelle tasche degli italiani altrimenti con i micro bonus non si risolve nulla”.

Chi manca all’appello? Sicuramente Giorgia Meloni che, intervistata, preferisce criticare le scelte poco incisive e dispersive del Governo. Se le risorse finora stanziate fossero state impiegate nel modo più opportuno, oggi i risultati sarebbero almeno in parte diversi. E non ci sarebbe bisogno di fantasiose operazioni. Mentre la sinistra del PD non si pronuncia, anche se il collegamento con la Cgil di Maurizio Landini rimane molto stretto, nella speranza di ripetere, in Italia, il successo francese di Jean-Luc Mélenchon.

Comunque sia, i numeri seppure non del tutto determinati, appaiono sufficienti. Un largo schieramento politico, che supera la maggioranza parlamentare, considerato anche l’appoggio del movimento sindacale, chiede a gran voce lo “scostamento di bilancio”. E poiché, in democrazia i numeri pesano come macigni, facciamolo questo benedetto scostamento. Una volta tanto diamo ragione a Giuseppe Conte, Matteo Salvini, Maurizio Landini ed a tutti coloro che, senza scoprirsi, marciano compatti in questa stessa direzione. Facciamolo, ma cerchiamo di capire in anticipo quali saranno, poi, le inevitabili conseguenze.

Si tratterebbe semplicemente di aumentare la spesa al netto degli interessi, offrendo sussidi e ristori, non coperti da aumenti di entrate, che, al contrario, considerate le proposte avanzate, in tema di cartelle esattoriali, dovrebbero diminuire. Prima conseguenza, quindi, un aumento dell’indebitamento. Vale a dire del debito pubblico. Nessun problema, potrà, almeno in apparenza essere coperto, con l’emissione di titoli di Stato. Per farlo, naturalmente, si dovranno pagare degli interessi. Ed ecco allora il primo intoppo.

Gli ultimi dati Istat, relativi al primo trimestre dell’anno, ci dicono come la spesa per interessi, nonostante la contrazione dell’indebitamento rispetto all’ultimo trimestre dell’anno precedente, fosse aumentata. Passando dal 3,5 al 3,8 per cento del Pil. Poca cosa si potrebbe obiettare. Se questo piccolo salto non avesse portato ad una forte caduta del valore dei titoli, bruciando parte del risparmio degli italiani. Per avere un’idea, il “BTP futura, scadenza novembre 2028”, acquistato all’emissione, senza commissioni, a 100, oggi vale poco più di 89. Con una perdita di capitale che supera il 10 per cento. Superiore quindi di 2 punti il tasso d’inflazione.

Va da sé, che aumentando ulteriormente l’offerta di titoli, queste perdite non possono che lievitare. Riflettendosi su tutto il mercato. Contagiando anche il comparto obbligazioni, essendo i vari segmenti tra loro interdipendenti. Attualmente lo spread con il Bund tedesco è pari a quasi 212 punti base, ma solo qualche mese fa aveva raggiunto e superato i 250. A dimostrazione di quanto possa divenire problematica la relativa curva, che impatta su uno stock di debito pubblico destinato a crescere, in un momento di grande volatilità.

Quest’ultimo, il debito, resta il problema dei problemi. Com’è noto le principali Banche centrali, soprattutto la FED e la BCE, sono ormai determinate a contrastare lo sviluppo inflazionistico, operando sulla struttura dei tassi d’interesse di riferimento, che sono destinati a crescere. Le differenze tra le due sponde dell’Atlantico sono tuttavia profonde. Al di là del diverso profilo congiunturale, c’è la vicinanza fisica della guerra nella martoriata Ucraina, la maggiore dipendenza europea dalle importazioni di gas dalla Russia, ma soprattutto il fatto che l’Eurozona, a differenza degli USA, non è un’area valutaria ottimale.

Debolezze complessive che hanno prodotto, per la prima volta, dopo tanti anni, una forte svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro. Oggi in pareggio: “one to one”. L’Europa sarà così favorita sul terreno delle esportazioni, ma penalizzata sul fronte delle importazioni di materie prime e prodotti energetici, che sono commercializzati in dollari. Ne consegue che l’inflazione interna europea non può che essere destinata a crescere.

Si dice (a sinistra) nessun problema. “Nell’attuale quadro macroeconomico, – è stato teorizzato – l’allarme paventato di una spirale prezzi-salari, che il governo italiano condivide, appare ingiustificato perché l’aumento inflativo è determinato dai maggiori costi dei beni energetici e non da una crescita della domanda”. Analisi errata: la stagflation degli anni ‘70 ebbe, invece, proprio quelle caratteristiche. Che sono destinate a ripetersi, nel caso di un forte crescita della massa salariale.

Il punto più delicato è invece il secondo. La politica monetaria della BCE è meno efficiente, a causa della frammentazione del mercato e delle diverse politiche fiscali seguite da ciascun Paese, specie nel momento in cui le regole del Patto di stabilità sono state sospese. In generale le decisioni sono prese dalla Banca centrale europea, guardando alle condizioni medie del mercato unico. Ma se queste ultime non sono uniformi, variando in funzione delle caratteristiche di ciascun Paese membro e delle politiche da questi adottate, ecco allora che la stessa politica può risultare troppo penalizzante per alcuni e troppo permissiva per altri. La dinamica degli spread dovrebbe essere il segnale di queste divergenze.

Vi si può ovviare? In parte, grazie ad un intervento discrezionale della BCE nell’acquisto di titoli sul mercato secondario dei Paesi più in difficoltà. Ma queste azioni non possono portare alla semplice monetizzazione del loro debito. Pratiche proibite dai Trattati. Quegli interventi, in altre parole, possono essere giustificati solo al fine di ridurre le paratie stagne dei singoli mercati nazionali, barriere destinate a crescere se le regole di finanza pubblica, a loro volta, tendono a divergere. E divergendo rendono più difficile realizzare quel compromesso che è indispensabile per mettere in piedi una siffatta politica. La cui mancanza è destinata a penalizzare soprattutto un Paese, come l’Italia. Nonostante il prestigio internazionale di Mario Draghi.

Come si vede le controindicazioni nei confronti di una politica centrata sulla realizzazione di un “maggiore scostamento di bilancio” sono, tutt’altro, che banali. L’ex banchiere centrale ne è consapevole ed è quindi deciso a resistere. Consapevole che ad impossibilia nemo tenetur. L’intenzione più volta manifestata di abbandonare il timone del Governo, in caso di crisi, dovrebbe far riflettere. Facendo far la tara ai mille tatticismi messi in campo da tutte le forze politiche, in vista delle prossime elezioni. Che sono tuttavia solo l’aspetto esteriore di un fenomeno, ben più preoccupante, segnato dal venir meno di un senso di responsabilità collettiva, che dovrebbe essere l’ingrediente essenziale per affrontare quello che potrebbe essere, in prospettiva, uno degli inverni più duri della recente storia non solo italiana.

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