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Covid-19, chi e perché critica Trump

I numeri sull'epidemia negli Stati Uniti. L'atteggiamento di Trump. Le critiche dei grandi giornali (anche quelli non ostili al presidente Usa). L'articolo di Marco Orioles

A parte una persona che però occupa la poltrona più importante del Paese (e del mondo), non è rimasto più nessuno negli Usa a sottovalutare il Covid-19.

Chi, d’altra parte, potrebbe sfidare la legge di gravità ignorando o minimizzando le conseguenze di un contagio che giusto ieri ha sfondato il tetto dei mille casi, “segnalando – come scrive un preoccupato New York Times – che il virus si sta diffondendo ampiamente nelle comunità sia della costa che del centro del Paese”?

La contabilità dell’epidemia lascia in effetti poco spazio ai dubbi. Da buon decano del giornalismo a stelle e strisce, il NYT ha approntato da giorni un database con cui fornisce ai lettori un quadro aggiornato in tempo reale dell’evoluzione del contagio.

E non sono davvero un bel vedere i numeri che la pagina della Gray Lady esibiva all’alba di stamane.

Sono 1.004 gli americani distribuiti in 37 dei 50 Stati dell’Unione (più Washington D.C.) che sono risultati positivi al virus da quando, lo scorso 21 gennaio, il Covid-19 ha contagiato il primo cittadino nello Stato di Washington. È un numero che è raddoppiato in appena tre giorni, visto che sabato scorso si era fermi a 500.

I decessi hanno invece toccato quota 31 dopo il primo registrato il 29 febbraio nella contea di King dello Stato di Washington. Con 273 pazienti infetti, Washington è anche il territorio Usa più colpito dal Covid-19, seguito dagli Stati di California e New York, gli unici dove i casi sono più di cento,  tallonati a loro volta dal Massachussets (92 casi).

Stati che, da soli, contano più di un terzo del totale dei casi apparsi in un’America dove però non ci saranno molto presto più zone franche (sono ancora dodici gli Stati apparentemente virus-free) visto che ieri anche un Massachussets finora immune ha annunciato i primi cinque casi interni e il suo primo decesso.

Ma più che i numeri in sé, a far gelare il sangue agli americani è il fatto che i pazienti da Covid-19 negli Usa sono un mix di persone che, come scrive ancora il NYT, o “hanno viaggiato in Cina”, o “erano passeggeri delle due navi da crociera in cui è scoppiata l’epidemia” oppure “hanno contratto localmente il virus”.

Preoccupa molto infatti l’aumento dei casi autoctoni, diagnosticati cioè a persone che non hanno messo piede all’estero. Uno sviluppo che, evidenzia ancora la testata più famosa del mondo, segnala due cose particolarmente inquietanti:  anzitutto, che “la malattia sta circolando dentro gli Stati Uniti” e, in secondo luogo, che lo sta facendo attraverso “persone che sono esposte (al virus) nelle scuole, negli uffici e nelle strutture sanitarie”.

Non sorprende, pertanto, che – proprio come nella sfortunata Penisola chiamata Italia – negli Stati Usa più colpiti dal contagio la vita dei cittadini sia cambiata a colpi di chiusure di scuole e uffici e di moniti dell’autorità a non uscire.

È questo il frangente che ha visto già una settimana la Fed effettuare un taglio d’emergenza (perché tale deve essere chiamata una situazione innescata da un tonfo della Borsa di ben il 10%) ai tassi d’interesse di ben mezzo punto – il doppio rispetto a quanto fa l’istituto in situazioni ordinarie – rendendo il credito negli Usa ancora più facile (il tasso adesso è compreso tra l’1 e l’1,25 per cento, uno dei livelli più bassi della storia).

Ed è lo stesso frangente che ha indotto il Congresso di Washington a varare un pacchetto di misure straordinarie per la lotta al Covid-19 che, con un plafond di 8,3 miliardi di dollari, è entrato in vigore venerdì dopo la firma da parte del presidente.

Misure forti ma che non bastano, come dimostra il meeting di ieri in cui l’amministrazione Trump si è confrontata con i parlamentari di entrambi gli schieramenti su un pacchetto nuovo e ancora più strong.

Tra le ipotesi vagliate ieri c’è anche la sospensione dei pagamenti fiscali fino alla fine dell’anno. Una decisione che potrebbe costare alle casse dello Stato una cifra tale – si parla di 700 miliardi di dollari – da far impallidire l’epica e iper-liquida risposta americana alla grande crisi del 2008.

Ma è questa la linea caldeggiata dal potente consigliere economico del presidente, Larry Kudlow. Che tuttavia, ai reporter che gli hanno chiesto da dove verrà quella montagna di danaro, ha risposto più o meno che arriverà “col tempo (attraverso) una migliore crescita economica”.

Al vaglio di governo e Congresso ieri c’erano però anche provvedimenti di minore entità e sopratutto mirati, come quelli caldeggiati da Trump per portare sollievo all’industria aerea e a quella delle crociere.

Spetterà al Segretario al Tesoro Steven Mnuchin e alla Speaker della Camera Nancy Pelosi trovare nei prossimi giorni la quadra di questo negoziato bipartisan.

Un negoziato su cui incombe però una mina chiamata Covid-19 posta sulle fondamenta dei palazzi del potere di Washington che, alla stregua di tutto il patrimonio immobiliare del Paese, sono esposti ai microbi.

Non è infatti più ipotesi di scuola, ma una proposta avanzata da diversi parlamentari, quella di far chiudere i battenti al Campidoglio e trasferire dibattiti e operazioni di voto in apposite piattaforme telematiche.

Il problema è che gli ostacoli tecnici sono numerosi e formidabile, e che la stessa Pelosi è fortemente contraria. “Siamo i capitani della nave”, ha affermato l’esponente Dem davanti ai colleghi di partito prima di spiegare loro che “siamo gli ultimi a scendere”.

Quale che sia la scelta ultima dei rappresentanti del popolo sulle misure di emergenza e le modalità con cui votarle, è bastata l’immagine di una classe politica coesa e seduta allo stesso tavolo per affrontare di petto il male per scatenare le Borse, con lo S&P 500 e il Nasdaq Composite che hanno chiuso con un sonoro + 4.9% e il Dow Jones su di 1.167 punti.

Buone anche le notizie per i bond del Tesoro, che hanno registrato un aumento di 20 punti base invertendo il calo delle precedenti e nervose settimane.

In questo scenario che rimane carico di incognite, l’interrogativo più vistoso riguarda l’uomo che più di tutti ha da perdere da una situazione fuori controllo: Donald Trump.

Un presidente che si sta attirando le critiche di mezzo mondo, oltre che di parte del suo stesso Paese, per atti ed esternazioni sul Covid-19 al limite del negazionismo.

Per rendersene conto basta appuntare lo sguardo sul tweet partito ieri dal profilo del capo della Casa Bianca, e soprattutto sulla risposta arrivatagli tempestivamente dall’account del noto virologo Roberto Burioni.

Si sprecano, negli Usa, le critiche feroci (qui sotto quella del reporter del Washington Post, David Nakamura) ad un leader che, nel bel mezzo di un’epidemia mortale, si ostina a fare bagni di folla e allungare serenamente le mani ai suoi interlocutori.

E il segnale che in America c’è qualcuno, anche tra gli amici di The Donald, sinceramente disgustato per tanta leggerezza è arrivato addirittura dal quartier generale del giornale controllato da uno dei maggiori sponsor di Trump e del trumpismo: il Wall Street Journal di Rupert Murdoch.

Nella colonna vergata e diffusa ieri, il quotidiano finanziario più importante d’America e del mondo ha inanellato una serie di potenti bordate dirette all’uomo che il WSJ non ha fatto mistero di appoggiare sin dai giorni della vittoriosa campagna elettorale del 2016.

Il punto sollevato dal giornale è che  “il coronavirus, se continua nel suo corso attuale, diventerà presto l’avversario più potente che l’amministrazione Trump abbia finora affrontato. Gli altri avversari di Trump, da Nancy Pelosi e Chuck Schumer ai mullah iraniani e Kim Jong Un, non sono (infatti) nulla a confronto di una malattia che può minacciare la vita degli americani e fermare l’economia”.

E come sta affrontando il capo della Casa Bianca sfida esistenziale, si chiede il WSJ? La risposta è che, come “ha fatto in altre crisi, il presidente sta temporeggiando, mentre elabora la natura della minaccia e prova quali risposte retoriche e politiche applicare. Ma – sottolinea il giornale cominciando la sua filippica – a differenza degli avversari politici umani, il coronavirus non è qualcosa con cui non si può bluffare”.

“Non può” lui, prosegue il giornale, “allontanare queste minacce o distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica creando un altro dramma, o dare la colpa al Presidente Obama”.

Non può farlo per una ragione molto semplice: perché “(n)el prossimo futuro i raduni di massa che sono stati critici per il (suo) successo politico (…) potrebbero essere banditi per motivi di salute pubblica. Se poi (Trump) è particolarmente sfortunato, uno dei suoi comizi potrebbe essere coinvolto in una più estesa epidemia”.

All’orizzonte di un’emergenza colpevolmente sottovalutata dal presidente, il WSJ intravede insomma il verificarsi “quasi certamente (di) tragedie strazianti che po(tranno) essere plausibilmente imputate alle politiche dell’amministrazione Trump”.

Se il coronavirus è una calamità, insomma, lo sarà anche per l’uomo più potente del mondo la cui rielezione è ora “a rischio”.

Lo è perché “tutti i media che detestano Trump faranno tutto il possibile per trasformare l’epidemia in un evento stile uragano Katrina”, scatenando la corsa a chi addossa più colpe sulle spalle del presidente.

Ma lo è anche perché nessuno a questo punto può escludere una recessione, che – ove si materializzasse – manderebbe in frantumi la sua reputazione di leader provvidenziale per l’economia e i lavoratori Usa.

“Se arrivasse anche la recessione – è la conclusione del giornale – non c’è il rischio che gli elettori perdano la pazienza con le piroette e i lazzi di Trump?”

 

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