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Conte, Zingaretti e il Pd indeciso a tutto

Gli equilibri interni del partito costringono il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, a discorsi involuti e ad ammiccamenti di vario genere che accentuano lo sconcerto e conducono al nulla. Il commento di Polillo

 

La presunta sacralità della Direzione del Pd non deve trarre in inganno. Non è più tempo di vecchie liturgie. Il mandato ottenuto all’unanimità da Nicola Zingaretti ha solo un significato tattico. Gli consentirà di proporre Giuseppe Conte come leader maximo della nuova/vecchia maggioranza. Ma il suono della sua stessa voce non è rassicurante. Tutti sanno che quella altro non è che una mossa obbligata, in attesa di poter calare le carte vere. Ma, per giungere a quell’appuntamento, occorre far trascorrere il tempo necessario, per consentire ai vari protagonisti di metabolizzare quel che, già oggi, potrebbe apparire evidente.

Resta comunque l’impressione di una mancanza di autonomia durata troppo a lungo. Quel dipendere, da parte del Pd, dalle labbra, del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, rinunciando a svolgere qualsiasi ruolo. Che non era ovviamente di rottura. Ma di bilanciamento. Considerata, tra l’altro, la scarsa capacità politica (si può dire?) di quest’ultimo e la relativa inconsistenza della sua base politica di riferimento. Invece di svolgere quel ruolo di mediazione, che pure era necessario, evitando di isolare Italia Viva, Zingaretti ha preferito calare un carico da undici. Facendo inevitabilmente pendere il piatto della bilancia dalla parte della crisi.

Il problema, come ha tenuto egli stesso a ribadire, nel corso della Direzione, non era ovviamente di natura personale. Nessun rammarico tardivo, almeno a parole, per la scissione voluta e operata da Matteo Renzi, all’indomani della nascita del Conte due. Ma, allora, c’era bisogno di prestarsi a fare da stampella alla nascita del gruppo degli “Europeisti Maie – Centro democratico” – raggruppamento tanto roboante nel nome quanto scarso nella consistenza politica fino al punto di dirottarvi una senatrice? Quella Tatjana Rojc, le cui prime dichiarazioni sono state “Mi sacrifico per il bene del Paese, me lo ha chiesto il mio partito”. Nemmeno si trattasse di immolarsi per fine supremo.

Ed ecco allora che il quadro complessivo si tinge di grigio. Nella lunga storia e nel travaglio del Pd, l’orgoglio per una posizione di autonomia era stata una costante, a volte vissuta anche pericolosamente. In quel Dna era l’impronta dei rapporti tra Togliatti e lo stalinismo. Oppure l’episodio di Giancarlo Pajetta che, durante l’invasione della Cecoslovacchia, a Mosca, si rifiuta di firmare una qualsiasi dichiarazione congiunta. Per terminare con Enrico Berlinguer e l’ombrello della Nato, il coraggio di Achille Occhetto alla Bolognina e via dicendo. Tutto bruciato sull’altare di un opportunismo che lascia stupefatti.

La cosa è ancora più grave se questi episodi sono messi in relazione alle prossime scadenze istituzionali. Pesano, fin da ora, i giochi che caratterizzeranno la scelta del prossimo Presidente della Repubblica. Si sa che la corsa è già iniziata anche all’interno del Pd E si sa anche che i voti dei parlamentari pentastellati sono una dote che non può essere trascurata. Ed ecco allora che la strategia personale di questo o quel dirigente – inutile fare nomi – impatta violentemente sugli equilibri interni del Partito. Costringe il suo segretario a discorsi involuti. Ad ammiccamenti di vario genere, che accentuano lo sconcerto e conducono al nulla.

Si continua quindi a pettinare le bambole, come direbbe Pierluigi Bersani. Ma è un grande azzardo. Dalle più recenti previsioni del Fondo monetario internazionale è allarme rosso. Tra i 30 Paesi considerati, in pratica il gotha mondiale, l’Italia si colloca al ventottesimo posto. Peggio di noi, con differenze minime, solo l’Argentina ed il Sud Africa. Nel 2022, infatti, il tasso cumulato di sviluppo sarà inferiore del 3,1 per cento a quello del 2019. Che, a sua volta, era ancora inferiore del 4 per cento ai livelli del 2007: prima del fallimento della Lehman Brothers. Un declino inarrestabile.

Se poi si guarda alla finanza pubblica, le preoccupazioni danno il capogiro. Nel corso del suo ultimo intervento alla Camera ed al Senato, il presidente del Consiglio ha parlato di una spesa di circa 100 miliardi a favore della società italiana. Pietosa omissione. Quella cifra si riferiva solo agli impegni per l’anno in corso. Mentre se si considera l’intero triennio della programmazione finanziaria, il totale, secondo i report della Banca d’Italia, raggiunge la fantastica cifra di 175 miliardi e qualche spicciolo. Se poi si include anche l’ultima legge di bilancio, si arriva a quasi 208 miliardi. Un importo che corrisponde ai finanziamenti del Recovery Fund, dissipato in un solo anno o poco più, quando quelle risorse, se tutto andrà bene, arriveranno in un intervallo di 5, per dover essere poi rimborsate, salvo il fondo perduto, in altri 30.

Ci si può allora meravigliare se il debito pubblico in un solo anno (novembre su novembre) sia aumentato di oltre 140 miliardi di euro, raggiungendo, se non superando (lo si vedrà con i dati di dicembre) il 157 per cento del Pil: 23 punti in più rispetto all’anno precedente? Ancora sostenibile con un tasso di crescita adeguato dell’economia, ma completamente fuori linea se le previsioni del Fmi si dimostreranno veritiere. Ed allora non basterà certo il paracadute della Bce, destinato prima o poi ad essere smobilitato. Assisteremo pertanto, ancora una volta, ad un copione già sperimentato, come fu quello del 2011, con gli spread destinati inevitabilmente a salire ed una crisi finanziaria pronta ad esplodere. Nicola Zingaretti ne è consapevole o, ormai prigioniero del piccolo cabotaggio, chiude gli occhi per non vedere?

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