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Mauritius

Come si destreggia la Francia nell’Oceano Indiano

Gli interessi della Francia sono prima di tutto economici: l'Oceano Indiano contiene uno dei sottosuolo più ricchi del pianeta. Numeri e approfondimenti nell'analisi di Giuseppe Gagliano

 

Dietro gli Stati Uniti, la Francia ha la seconda zona economica esclusiva (Zee) più vasta al mondo (10.070.754 km²). Essendo l’unico paese presente su sei dei sette continenti e sui tre oceani più grandi del pianeta, è un attore importante nel concerto delle nazioni marittime. La presenza nell’Oceano Indiano costituisce il 93% della area Zee, il che testimonia la sua importanza. Le isole della Riunion e Mayotte, che sono le più famose, ma anche le Isole Sparse con Crozet, Amsterdam e Saint-Paul, o Kerguelen e Tromelin, formano zone di sovranità francese. Nonostante abbiano solo 1,6 milioni di abitanti e siano, per la maggior parte, rivendicati dai territori costieri, rimangono, data la loro posizione strategica, oggetti geopolitici vitali per la Francia.

Gli interessi francesi sono prima di tutto economici. In effetti, l’Oceano Indiano contiene uno dei sottosuolo più ricchi del pianeta. Contiene quasi il 55% delle riserve mondiali di petrolio, il 60% di uranio, l’80% di diamanti, il 40% di gas e il 40% di oro, per non parlare delle riserve di pesce.

D’altra parte, è per proteggere gli stretti di quest’area che la Francia vi mantiene una presenza significativa. Il 40% del petrolio mondiale passa attraverso lo Stretto di Hormuz e il 7,5% del commercio marittimo mondiale passa attraverso il Corno d’Africa. Gli stretti di Hormuz, Malacca, Sunda o Lombok al largo dell’Indonesia, Palk tra India e Sri Lanka, ma anche i canali di Suez e Mozambico sono oggetto della pirateria che affligge la regione. Per contrastare questo flagello, la Francia partecipa all’operazione Atalanta o all’Accordo di cooperazione regionale contro la pirateria e le rapine a mano armata contro le navi in Asia, organizzazioni create per mettere in sicurezza l’area e consentire la libera circolazione del traffico marittimo.

Poiché il centro di gravità delle questioni geopolitiche internazionali è a est, anche la Francia si è impegnato a fare dell’Oceano Indiano il “perno a est”. Nell’Oceano Indiano sono infatti presenti sei membri del G20, che sono Australia, Cina, Corea del Sud, India, Indonesia e Giappone. Grazie alla stretta collaborazione, da più di trent’anni, tra la Francia e la Commissione dell’Oceano Indiano, accanto all’Unione delle Comore, Madagascar, Mauritius e Seychelles, la Francia ricopre anche lo status di attore importante di questo spazio geoeconomico.

A livello strettamente strategico, la base francese a Gibuti le consente il controllo dell’Africa orientale e dello Stretto di Bab el-Mandeb, proprio come l’infrastruttura militare francese negli Emirati Arabi Uniti che apre le porte al Golfo e allo Stretto di Hormuz. Ma è soprattutto per competere, o almeno per contenere la postura offensiva dei competitor che la Francia mantiene una presenza costante in quella area.

Gli Stati Uniti hanno lì una base la Diego Garcia, scalo per la loro quinta flotta. D’altra parte, le nuove vie della seta della Cina e la loro strategia “collana di perle” rendono l’Oceano Indiano essenziale per Pechino. L’India, oltre alla sua Zee di oltre 2.000 km2, ha una diaspora di 6-7 milioni di cittadini nel sud-est asiatico, in Australia e in Nuova Zelanda. Il suo piano per le armi navali 2017-2027 prevede il raddoppio del numero delle sue navi di superficie, sottomarini e aerei. Segnali questi che non passano certamente inosservati alla Francia e che la rendono consapevole del valore altamente strategico di questa area.

Come disse l’ufficiale di marina statunitense del XIX secolo Alfred Thayer Mahan, “il potere che dominerà l’Oceano Indiano controllerà l’Asia e il futuro del mondo si giocherà nelle sue acque”.

Questo spazio è diventato tanto una zona di influenza quanto un punto di attrito tra le maggiori potenze mondiali. La presenza francese all’interno dell’Asean Defence Ministers Meeting-Plus e del Pacific Regional Environment Programme, ad esempio, sottolinea la volontà politica della Francia di influenzare il futuro di quest’area strategica. Difendendo il diritto alla libertà di movimento, l’equilibrio del potere e la cooperazione, la Francia intende mantenere il suo status di attore di primo piano in questo spazio.

Se la Francia, come d’altra parte l’Inghilterra, hanno saputo tutelare e salvaguardare la propria sicurezza nazionale, l’Italia è stata — almeno allo stato attuale — del tutto incapace di salvaguardare quello snodo fondamentale costituito dalla Libia che la separa dall’Africa e attraverso la quale passa uno dei maggiori volumi di traffico commerciale tra Oriente e Occidente.

La guerra libica, come abbiamo avuto modo di sottolineare polemicamente più volte su queste pagine, ha visto l’affermazione di due nuove potenze e cioè la Turchia e la Russia (la Turchia che influenza la Tripolitania e la Russia la Cirenaica). Il nostro paese privo in questa area della protezione dello zio Sam — alludiamo naturalmente al fianco sud della Nato e quindi agli Usa il cui interesse prioritario è quello di contrastare la postura offensiva nell’Indo-Pacifico del Dragone — ha dimostrato, almeno fino a questo momento, di non essere interessata a tutelare questo snodo strategico fondamentale che ormai si caratterizza per l’elevatissima instabilità, che sta avvantaggiando il terrorismo jihadista e il traffico di Immigrati.

Ma l’Italia dell’articolo 11, l’Italia del buonismo di Gramellini, l’Italia del pacifismo irenico che individua nelle parole di Papa Francesco un modello per orientarsi nel mondo globalizzato non ha tempo di occuparsi di queste faccende che vagamente ricordano aspirazioni neocoloniali. Peccato perché se non sarà l’Italia ad occuparsene saranno altri a farlo.al posto nostro che siano nemici o che si presentino come alleati.

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