Caro direttore,
sul numero domenicale di Startmag trovo quattro articoli che fanno le pulci a qualche tuo collega o a qualche media.
Le note di Giuseppe Liturri a margine dell’editoriale di Federico Fubini sono puntuali e sacrosante ma temo che al Corriere le liquideranno nella migliore delle ipotesi con un’alzata di spalle. Lo stesso – con riferimento ai bersagli della polemica caso per caso esplicitamente individuati o meno – si può dire del centrato e divertente corsivo di Giuliano Cazzola sui casi Scurati e Barbano e anche del “graffio” non privo della indispensabile punta di veleno di Francesco Damato, dedicato alla Stampa. Ma è sul quarto contributo che vorrei intrattenerti un istante.
L’articolo ripreso dalla newsletter Charlie sfotte, con inimitabile classe, la direzione di Repubblica per il tributo di spazio e di “firme” col quale celebra la gloria di Giorgio Armani. Noi milanesi siamo peraltro fieri di “Giorgio”, non solo per il contributo che ha dato e dà al benessere ambrosiano ma anche per i trascorsi di vetrinista de la Rinascente, diventato star mondiale della moda nell’accezione più ampia del termine, insomma la versione estrema del mito di “chi che si è fatto da sé”; Repubblica che pur non è milanese, ne è ancora più fiera per il naturale affetto che lega i media ai loro principali inserzionisti. Anche per Charlie vale però la considerazione fatta sopra: in redazione di Repubblica si saranno fatti una risata, con buona pace dei disagi e delle proteste degli organi sindacali e dei tuoi colleghi più sensibili.
Il problema è che sull’inverecondo miscuglio di contenuti e pubblicità (nella più ampia accezione comprensiva delle iniziative marketing/promozione/eventi) al quale sono dediti i principali quotidiani italiani in termini di diffusione, Charlie ritorna da tempo immemorabile quasi ogni settimana, ma non pare che la perseveranza lasci una qualsiasi traccia. Salvo marginali eccezioni non si ha notizia di procedimenti dell’Autorità garante che contestino condotte di “pubblicità occulta” né di polemiche tra i tanti che dicono di avere a cuore il futuro del giornalismo. Di altre autorità più o meno “preposte” non merita parlare.
Permettimi allora di prenderla un po’ alla lontana, anche perché quello della pubblicità travestita da articolo di giornale è solo un aspetto di una storia antica, oggi esasperata dalle condizioni disperate in cui versa la carta quotidiana e periodica, stampata e virtuale.
Più di quarant’anni fa, nell’applauditissimo discorso inaugurale del suo mandato di presidente della Consob in un’aula magna affollata come non mai della Bocconi, Guido Rossi, dopo aver tessuto l’elogio della legislazione anglosassone fondata sul concetto di disclosure aveva voluto puntualizzare che tutta la trasparenza che fosse riuscito a imporre ai mercati mobiliari con gli strumenti regolatori della Commissione sarebbe servita a poco, se il mondo dei media non avesse fatto la propria parte di “cane da guardia” dei comuni cittadini che non dispongono di accessi privilegiati alle informazioni.
I giornalisti furono sedotti e Rossi divenne un divo della stampa economico-finanziaria e non solo, col titolo di “signor Trasparenza”, ma i cani da guardia seguitarono ad abbaiare poco e in ogni caso senza scoprire i denti, sicché si continua a ignorare se ne siano provvisti.
Si dirà che a molti organi di informazione ormai restano solo gli occhi per piangere e quindi non bisogna infierire, e non starò qui a dire che la categoria questa fine se l’è meritata tutta, perché il problema rimane. Ma qualcosa si potrebbe fare e la modesta proposta per cui ti scrivo è la seguente. 1. Abolire l’ordine professionale, il cui ruolo è sempre più evanescente nel momento in cui anche il trattamento previdenziale della categoria è ormai da tempo gestito dall’Inps, mentre il ruolo deontologico è affidato a fantomatici organismi locali. 2. Abolire la medievale figura del direttore “responsabile”: il direttore è direttore, punto. Le responsabilità le stabilisce caso per caso il giudice competente. Se proprio non si vuole fare a meno di una figura che risponda “per definizione” di eventuali malefatte giornalistiche, questo ruolo non potrebbe spettare che a una figura espressione dell’azienda, e non certo a chi rappresenta la redazione. La sanzione di chi svolge un lavoro giornalistico dev’essere il disdoro individuale, non l’ufficiale giudiziario: se svolge lavoro giornalistico, naturalmente.
Certo, non servirà a trasformare i giornali in miniere d’oro. Ma, se non altro, in questo modo, il caravanserraglio dei media si libererà dei residui di pseudo sacralità “da art. 21”, i direttori avranno una scusa in meno per sdraiarsi al cospetto del loro editore e soprattutto del finanziatore del loro editore e – lasciami sognare – nelle redazioni, fatte di brave persone non più protette da burocratiche barriere all’ingresso, magari comincerà a circolare l’aria frizzante della libera iniziativa.