Quale che sia l’esito dei processi legati alle decisioni assunte da Matteo Salvini in materia di contrasto all’immigrazione, non sarà da questi che gli verranno grandi problemi. Anzi potrebbe anche verificarsi che il leader della Lega ne tragga qualche vantaggio in termini di popolarità, unità alla solidarietà peraltro scontata dei suoi alleati. La nota dolente sembra essere un’altra.
Richiamando un celebre titolo di un settimanale britannico si può dire, sotto il profilo politico, che Matteo Salvini si sia finora rivelato inidoneo (“unfit”) ad assumere il ruolo di primo ministro. Non che manchino i successi elettorali (la stessa sconfitta della candidata in Toscana ha dato realisticamente un ottimo risultato per la Lega anche se per altro verso lascia stupefatti la bruciante sconfitta di Mantova) ma rimane assente la proposta politica, troppo infarcita di elementi propagandistici e, soprattutto, che spesso si muove verso lidi ancora ignoti se non irraggiungibili o persino pericolosi come il semplice ipotizzare l’abbandono dell’Euro o una diffidenza irragionevole nei confronto dell’Unione europea che per la storia della Lega dovrebbe essere un riferimento. Per di più le “spallate”, accreditate con grande convinzione sono funzionali alle vittorie ma quando non si realizzano trasformano un buon risultato in una sconfitta.
Al contrario il Pd che ha lasciato trapelare il timore di perdere importanti regioni, (per questo anche facendo leva sul “voto utile”) è apparso come il vincitore delle elezioni pur essendo stato battuto in una sua tradizionale roccaforte come le Marche. Salvini se ne dovrà ricordare per gli appuntamenti elettorali della primavera del prossimo anno quando si eleggerà anche il sindaco di Milano, una sfida che oggi appare in salita. È lo stesso dibattito interno alla Lega e nel centro destra a mettere in luce i limiti esistenti che frenano oggettivamente il capo del “Carroccio” in versione nazionale.
In primo luogo, come ha rilevato impietosamente il Presidente della Liguria Toti, reduce da un successo assai lusinghiero, un conto è essere il segretario di un partito, un altro essere il leader (riconosciuto) di una coalizione che si pone l’obiettivo di governare il paese. L’Italia, priva di una memoria condivisa, tendente a dividersi radicalmente su quasi tutto, con livelli preoccupanti di disoccupazione e differenze abissali tra centro-nord e sud, è gravata da un enorme debito pubblico (in crescita) che non consente più facili elargizioni assistenziali, sistemi previdenziali in forte squilibrio o fantasiosi progetti di riforma a “costo zero”, come quella fiscale adombrata dal governo Conte, che durano lo spazio di un mattino.
Un’alleanza che si propone come alternativa di governo deve avere un programma credibile e non limitarsi a polemizzare chiedendo di volta in volta le dimissioni di questo o quel ministro. La chiave per candidarsi a guidare il paese, sia per uno schieramento di centro-destra che di centro-sinistra sta nel fatto che a guidare le alleanze vi sia una forte e politicamente autorevole forza politica (o un’aggregazione) di “centro”che rassicuri, non solo nei toni, quello che viene definito il ceto medio produttivo, esteso ad una larga fetta di lavoratori subordinati che ritiene necessario il cambiamento ma che è naturalmente ostile ad ogni avventurismo tanto più quando il futuro è gravido di preoccupazioni.
I due schieramenti, cosiddetti di centro-destra e centro-sinistra che oggi si fronteggiano hanno entrambi un “centro” numericamente e politicamente debole. A destra l’anomalia è più vistosa con Forza Italia in una condizione di emorragia permanente. A sinistra bisogna prender atto dell’indebolimento di Italia Viva e delle oggettive difficoltà del Pd a gestire un’alleanza con i 5 Stelle che, ancorché in fase di veloce declino, ricercano disperatamente una visibilità mantenendo un forte condizionamento nei confronto degli altri partner di governo. Certo esistono altre forze di “centro” come Azione e Più Europa ma allo stato non sono in condizioni di costruire nuovi scenari.
È invece proprio dalla Lega che arrivano segnali di riflessione di cui si è fatto autorevole portavoce Giancarlo Giorgetti partendo dalle probabili modifiche in senso proporzionalista della legge elettorale. Pur considerando la modifica del maggioritario un grave errore e dichiarando di convenire con il giudizio altrettanto negativo di Romano Prodi secondo il quale solo il maggioritario garantisce governi stabili, ha sostenuto che la Lega “deve aprirsi a mondi che ci guardano con diffidenza e sospetto”, aggiungendo che “se abbiamo fatto degli errori, li dobbiamo correggere”.
Ma è soprattutto sull’Europa che si annunciano novità, sia sull’opportunità di aprire un rapporto con il Ppe, sia di spostare il dibattito sull’uso dei fondi del Recovery Plan. “Voglio fare debito buono, come dice Draghi. Vorrei sapere se quei soldi vengono usati per la Next Generation oppure per la Present Peneration, distribuendo soldi a destra e a manca per comprare voti. Per la Next Generation siamo disposti a discutere.”
È evidente che queste riflessioni sono valide in quanto tali, a prescindere dalla modifica della legge elettorale in senso proporzionale che in realtà ha fornito un ottimo pretesto per aprire il dibattito nella Lega che si trova ad un punto di svolta. Il Carroccio (anche se questo simbolo forse è un po’ desueto per la lista “Salvini premier”) non può pensare di arruolare “ope legis” quel che rimane di Forza Italia che paradossalmente, mentre è al suo minimo storico elettorale, sta accrescendo il proprio ruolo politico di “centro”, né può illudersi che Giorgia Meloni, fresca reduce dalla nomina a presidente dei “conservatori” europei, accetti un ruolo subalterno perenne semplicemente sulla base nei numeri elettorali. È da queste considerazioni che prende il via il tentativo di Giorgetti di portare la Lega “al centro”, operazione intelligente ma che, per riposizionare politicamente la Lega deve fare i conti con gli errori del passato.
Difficile prevedere se Salvini vorrà e potrà guidare questo progetto, ma certo è nell’interesse del paese che si costruiscano, a destra come a sinistra, alleanze ed aggregazioni credibili e che si legittimino reciprocamente come forze di governo alternative.