Uno studioso autorevole come Francesco Sisci, con alla spalle un’esperienza pluridecennale in Cina, auspica che Pechino prenda almeno in parte le distanze dalle politiche di Vladimir Putin e dell’ayatollah Ali Khamenei.
Le parole di Sisci saranno certamente valutate con attenzione, come è avvenuto in altre occasioni, ma questa volta è davvero difficile capire se i suoi saggi suggerimenti riusciranno a far breccia nell’establishment di Pechino e nelle variegate élites culturali che frequentano i variegati think thank vicini al regime cinese.
Sul piano della razionalità, sostenere acriticamente le politiche di Russia e Iran costituisce una palla al piede per le ambizioni globali di una grande potenza come la Cina su tutti i piani: sul terreno economico, politico e tecnologico. Ciò vale in particolare in questo momento in cui la Cina è a un bivio cruciale tra crescita e declino.
Una vera e sincera politica di opening up sarebbe essenziale sia per dare fiducia agli investitori internazionali, sia per far crescere gli scambi commerciali e più in generale per migliorare l’immagine mondiale del Dragone: la reputazione della Cina si è parzialmente incrinata dopo la pandemia in varie parti del mondo, e più recentemente in alcuni paesi africani per le sue pesanti e inedite condizionalità finanziarie.
È sempre difficile valutare da lontano, ma un opening up sostanziale dovrebbe essere utile su diversi piani.
Mi viene in mente la difficile competizione di Hong Kong con Mumbai per la leadership dei mercati finanziari asiatici, oppure per reperire risorse necessarie ad affrontare le sfide interne difficili in materia di welfare (pensioni e riforma sanitaria) in relazione all’invecchiamento della popolazione, ed in particolare alle fasce più povere della popolazione anziana.
Nonostante queste difficoltà, la Cina avrebbe ottime possibilità di forte ripresa economica, ma a condizione di una stagione di riforme e di una vera apertura internazionale.
Alcuni segnali sembrano andare in una direzione più coraggiosa anche se la missione a Parigi rischia di diventare un’arma a doppio taglio per le mille incertezze che circondano le speranze di una tregua olimpica.
Per altri aspetti la politica estera del Dragone non sembra cogliere le opportunità di una potenziale occasione storica per la Cina perché caratterizzata – come notato da Sisci – da un eccessivo allineamento alle posizioni di Mosca e di Teheran che dall’esterno è davvero difficile da decifrare.
Gli Stati Uniti sono in piena campagna elettorale e nei prossimi sei mesi Pechino potrebbe giocare un ruolo molto importante come una potenza autorevole nella mediazione dei conflitti armati e delle tensioni internazionali che agitano il mondo contemporaneo.
Esporsi può significare anche rischiare critiche dalle nuove generazioni (per esempio sul piano ambientale per il massiccio rilancio della produzione di nuovi centrali a carbone), ma una grande potenza globale come la Cina ha responsabilità di negoziazione diplomatica a cui non dovrebbe abdicare.
Il paradosso è che in mancanza di un’iniziativa cinese capace di rispondere alle sfide del momento (e in assenza di un ruolo politico dell’Unione europea) gli Stati Uniti sono costretti – loro malgrado – a svolgere tutte le funzioni in commedia.
A Washington spetta contemporaneamente stoppare l’aggressività di Netanyahu a Rafah, costruire il nuovo porto artificiale di Gaza per garantire un flusso continuo e sicuro di aiuti umanitari ai palestinesi, consentire alle navi mercantili di attraversare in sicurezza il mar Rosso e arrivare al canale di Suez e – last but not least – assicurare una difesa aerea adeguata all’Ucraina, soggetta ogni giorno a pesanti bombardamenti russi.
Quando più di venti anni fa nel 2001 la Cina entrò nell’Organizzazione mondiale del commercio, le aspettative erano diverse: in Occidente e in Oriente, a nord e sud, si sperava in un ruolo molto più proattivo di mediazione del Dragone nella politica e nella diplomazia internazionale. Per questo sarebbe auspicabile – come suggerisce Francesco Sisci – che la Cina comprenda che “forse continuare con un eccessivo allineamento” alle posizioni avventuristiche della Russia e dell’Iran rischia di essere un gioco a somma zero.