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Israele Sudan

Che cosa cambierà davvero dopo la tregua Hamas-Israele

Nei primi passi della presidenza Biden, Iran e Hamas hanno visto un’occasione per uscire dall’angolo in cui li aveva chiusi Trump e riportare le dinamiche della politica regionale agli anni di Obama. L'analisi di Federico Punzi per Atlantico quotidiano

 

Alla fine è arrivato. Un cessate il fuoco unilaterale dichiarato da entrambe le parti simultaneamente, dietro iniziativa egiziana.

A convincere Netanyahu, che aveva respinto gli appelli del presidente Usa Biden, sarebbe stata secondo alcune analisi la posizione del leader centrista Yair Lapid, a cui il presidente Rivlin ha affidato il mandato di formare il nuovo governo, dopo il primo tentativo fallito dello stesso Netanyahu. Quindi anche per motivi di politica interna il premier uscente, per molti osservatori al capolinea, sarebbe stato indotto a fermarsi.

Il copione narrativo e politico-diplomatico del conflitto è sempre lo stesso. Aggressione contro Israele non provocata (come abbiamo visto, la disputa su Sheikh Jarrah è solo un pretesto), da Gaza partono centinaia di missili sui centri abitati israeliani: sostanziale indifferenza. Reazione di Israele, raid mirati su postazioni di lancio, depositi e leader dei terroristi, i suoi nemici sono alle corde ed esibiscono un numero crescente di vittime civili, da essi stessi causate (e comunque non accertabile): arrivano gli appelli alla de-escalation, a fermare le violenze, rigorosamente “da ambo le parti”, e le “pressioni” per un cessate il fuoco.

Più volte, per quasi una settimana, gli Stati Uniti hanno dovuto bloccare bozze di dichiarazione del Consiglio di Sicurezza Onu in cui nemmeno si citavano gli oltre 4 mila razzi sparati da Hamas e Jihad Islamica Palestinese verso le città israeliane.

Ma alla fine l’amministrazione Biden è caduta nella solita trappola: il diritto di Israele all’autodifesa viene ribadito come premessa in ogni dichiarazione, ma di fatto negato quando si chiede a Gerusalemme di fermarsi proprio nel momento in cui sta cominciando ad assestare i colpi più pesanti ai suoi aggressori, due organizzazioni terroristiche.

Quando lo scorso weekend sotto i raid israeliani è venuto giù un edificio di Gaza che ospitava anche gli uffici di alcuni media, tra cui Associated Press e Al Jazeera, il segretario di Stato Usa Anthony Blinken è intervenuto chiedendo con fermezza “chiarimenti” a Gerusalemme, come se non sapesse che una delle tattiche più abominevoli (e arcinote) di Hamas è proprio quella di usare i civili, meglio se bambini o giornalisti, come scudi umani, nascondendo postazioni e centri di comando all’interno delle zone residenziali; e come se non sapesse che Israele ha negli anni perfezionato le tecniche per avvertire con largo anticipo i civili degli obiettivi che stanno per essere colpiti, in modo da dare loro tutto il tempo per mettersi in salvo, accettando che anche i combattenti nemici riescano a fuggire portando con sé del materiale. Sistemi talmente raffinati e affidabili che, come avrete notato dalle immagini dei giorni scorsi, gli stessi palestinesi si appostano a poche centinaia di metri per filmare il momento in cui le bombe israeliane centrano l’obiettivo. Si fidano più loro delle dichiarazioni di Israele che i media internazionali…

Questo copione – per cui è quando Israele reagisce e i suoi nemici si trovano in difficoltà che aumentano le pressioni per un cessate il fuoco – finisce sempre per offuscare una verità che dovrebbe invece essere tenuta nella massima considerazione, sia a livello politico che mediatico: Hamas e Jihad Islamica Palestinese hanno iniziato questo conflitto, come già altri in passato, lanciando missili per lo più di fabbricazione iraniana, o fabbricati con componenti e know-how iraniani. E la più grande arma che Hamas ha contro Israele è l’indignazione internazionale per le vittime civili, che usa cinicamente con l’aiuto dei media internazionali.

Hamas ha certamente pagato un prezzo altissimo, ma come già altre volte non è sradicata, anzi ha conseguito la vittoria politica che cercava, dimostrando di essere l’unica fazione palestinese ad avere la volontà, e le capacità, di colpire Israele e di combattere per Gerusalemme, per la Moschea di al-Aqsa e per gli arabo-israeliani.

Fonti militari israeliane sostengono che nei raid sono state distrutte oltre due dozzine di fabbriche di missili nella Striscia di Gaza, ma stimano che ai terroristi restano ancora migliaia di missili e, soprattutto, le capacità tecniche, grazie all’aiuto degli iraniani, per iniziare a riempire nuovamente i loro arsenali non appena cessate le ostilità.

Israele ha il dovere di difendere i suoi cittadini e cerca di farlo evitando un’incursione di terra, che farebbe salire enormemente il numero di vittime da una parte e dall’altra. Ma perché la sua difesa sia efficace, i raid aerei devono poter durare quanto necessario. E il giudizio spetta alla leadership politica e militare israeliana.

Gli errori dell’amministrazione Biden mettono in pericolo Israele due volte: incoraggiando i suoi nemici a colpire e impedendogli di fatto di annichilire le minacce dirette alla sua sicurezza.

Abbiamo detto del movente politico di Hamas, ma è inimmaginabile che un attacco di così vasta portata non abbia ricevuto il via libera da Teheran. L’Iran – ricordiamolo – controlla direttamente la Jihad Islamica Palestinese, emanazione dei Pasdaran, ed è il principale sponsor di Hamas. “I razzi che usiamo per martellare Tel Aviv, le nostre armi, i nostri soldi e il nostro cibo, tutto viene fornito dall’Iran”, ha rivendicato Ramez Al-Halabi, ufficiale della Jihad Islamica Palestinese.

Uno degli obiettivi del regime iraniano tramite questo conflitto è affossare gli Accordi di Abramo, il processo di pace avviato lo scorso anno tra Israele e diversi Stati arabi. Perché in essi si andava delineando un potenziale fronte unito arabo-israeliano contro le sue ambizioni egemoniche nella regione e perché rappresentano una negazione fattuale dell’assunto secondo cui la questione palestinese sarebbe il principale ostacolo alla pace e alla cooperazione regionale, un luogo comune di comodo, sia in Medio Oriente che in Occidente, su cui Teheran ha fatto leva per decenni al fine di aumentare la propria influenza.

Nell’arco di poche settimane, l’amministrazione Biden ha mandato messaggi che hanno incoraggiato i nemici di Israele: ha aperto senza pre-condizioni – anzi, nonostante gli attacchi delle milizie irachene filo-iraniane alle forze Usa – al ritorno nell’accordo sul programma nucleare iraniano (Jcpoa); ha ripristinato, senza condizioni, i fondi per le organizzazioni palestinesi, sospesi da Trump, ritardando la prima telefonata al premier israeliano Netanyahu; ha cancellato, anche in questo caso senza condizioni, la designazione degli Houthi come gruppo terroristico, introdotta dall’amministrazione Trump, ignorando le preoccupazioni del Consiglio di cooperazione del Golfo per gli attacchi contro l’Arabia Saudita.

Pochi giorni dopo, gli Houthi hanno ringraziato attaccando l’aeroporto internazionale saudita di Abha. Come pensate che Hamas e Jihad Islamica abbiano interpretato il fatto che gli Houthi hanno potuto lanciare impunemente missili contro Riad? Dopo i missili sparati dallo Yemen sul territorio saudita, sono arrivati i missili da Gaza su Israele. Guarda caso colpiti i due principali alleati degli Stati Uniti nella regione, da cui però l’amministrazione Biden ha mostrato di voler prendere le distanze. Nelle scorse ore, intercettato un missile lanciato dagli Houthi contro la città saudita di Jizan. Sono i proxies di Teheran che attaccano Israele e Arabia Saudita simultaneamente, mentre Biden prepara l’appeasement con gli iraniani.

Dal Jcpoa agli Houthi, ai fondi per i palestinesi, Biden ha mostrato di voler ribaltare tutte le politiche del suo predecessore, il che ha indotto Hamas ad aprire una campagna su Gerusalemme, nella convinzione che a Washington siano pronti a revocare anche la decisione di Trump di riconoscerla come capitale di Israele.

Insomma, nei primi passi della presidenza Biden, Iran e Hamas hanno visto un’occasione per uscire dall’angolo in cui li aveva chiusi Trump e riportare le dinamiche della politica regionale agli anni di Obama: Stati arabi, Usa e Ue sotto lo scacco della questione palestinese, che Teheran rinfocola a piacimento; rapporti Usa-Israele ai minimi termini; mani libere nel finanziare e armare i suoi proxies regionali (Hamas, Hezbollah, Houthi). E purtroppo sembra che abbiano visto giusto…

(Estratto di un articolo pubblicato su atlanticoquotidiano.it)
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