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De Angelis

Che cosa cela il caso De Angelis

Le dichiarazioni di De Angelis sulla strage di Bologna non saranno un bis del caso Turigliatto-Prodi del 2008, ma certo non saranno salutari a Meloni. L'analisi di Gianfranco Polillo

 

Fosse dipeso dall’opposizione, il governo di Romano Prodi non sarebbe caduto il 24 gennaio del 2008, a seguito del voto di sfiducia espresso dal Senato. Forse non sarebbe durato per l’intera legislatura. Troppi i contrasti sotterranei che agitavano la sua risicata maggioranza. Ma, certamente, non avrebbe aperto la strada alle successive elezioni anticipate, destinate a favorire il passaggio del testimone nelle mani di un centrodestra che, da tempo, scalpitava per riprendersi Palazzo Chigi, dopo la sconfitta di misura, alle precedenti elezioni del 2006. Anno in cui la partita era stata persa per un pugno di voti: meno di 25mila alla Camera, contro una maggioranza di voti al Senato, vanificata dal complicato riparto dei seggi su base regionale.

Ed, invece, a rimettere tutto in discussione ci pensò soprattutto il compagno Turigliatto, leader della “Sinistra Critica” una costola di Rifondazione Comunista, da cui si era staccato, che, con il suo voto contrario, che si sommò a quello di un pugno di dissidenti, in quel frangente capitanati da Clemente Mastella, portò alle dimissioni dell’esponente bolognese. Ed, all’ennesima dimostrazione, che nella vita i più puri, alla fine, riescono sempre ad imbattersi in qualcuno che è ancora più puro. Ed è allora che l’irriducibilità si trasforma nel miracolo della disfatta.

IL CASO DE ANGELIS PER LA STRAGE DI BOLOGNA

Chissà perché viene alla mente quel lontano episodio? C’è forse una qualche attinenza con il caso, appena scoppiato, di Marcello De Angelis dopo le sue dichiarazioni sulla strage di Bologna di quel lontano agosto del 1980? Quelle sue dichiarazioni – “So per certo che con la strage di Bologna non c’entrano nulla Fioravanti, Mambro e Ciavardini” – non saranno un bis del caso Prodi, ma certo non faranno bene a Giorgia Meloni. Ed al suo Governo. C’è infatti un elemento incomprensibile in quel detto non detto. “So per certo”. Ed allora spieghi. Faccia capire anche a noi, comuni mortali, cosa è veramente successo 43 anni fa. Affinché le tante vittime di allora possano, finalmente, riposare in pace.

Sarà così? Al momento non è dato da sapere. Resta comunque il caso di un militante della destra italiana, da sempre su posizioni estreme, ma chiamato a far parte del gruppo dirigente di un partito che, nel frattempo, aveva cambiato pelle. E che ora rischia di essere risucchiato nelle sabbie mobili di un passato che potrebbe “afferrare il vivo”, fino a rimettere in discussione principi costitutivi – la superiorità storica del regime democratico rispetto al fascismo o, meglio, al mussolinismo – non negoziabili.

Il tutto senza voler minimamente trascurare il profilo umano della vicenda. I lutti patiti dallo stesso De Angelis per vicende legate al periodo degli “anni di piombo”, quando lo scontro tra i due opposti estremismi – quello rosso e quello nero – era al color bianco. O il fatto che uno dei condannati per la strage di Bologna – Ciavardini – è un suo stretto parente, seppure acquisito. Qui si sta parlando dei profili di natura politica. E non v’è dubbio che lo stesso De Angelis, scegliendo quella forma di comunicazione, proprio a questo pensava. Sperando, tra l’altro, di ottenere il sostegno dei suoi più stretti camerati. Come di fatto si è verificato: basti leggere il commetto di Gianni Alemanno.

LA CONVIVENZA TRA ESTREMISMO E RAGIONEVOLEZZA

Il che porta a concludere che gli elementi di analogia con il caso Turigliatto, al di là dei differenti esiti della vicenda, vi sono tutti. Riproponendo pertanto il tema del rapporto che all’interno dei singoli partiti deve intercorrere tra le diverse posizioni, che in essi trovano diritto di cittadinanza. Fino a che punto, in altre parole, le posizioni più estreme possono convivere con una normale ragionevolezza? Intendendo con quest’ultima espressione l’atteggiamento di una formazione politica che ha il dovere di rappresentare l’insieme di coloro di cui è espressione e non solo i depositari più agguerriti di un sentimento identitario. Problema, per inciso, che fu anche del fascismo, e che il Duce risolse, in qualche modo, concentrando sulla sua persona – il mussolinismo, appunto – il massimo possibile dei poteri.

Che una libera dialettica, all’interno dei partiti, debba esserci è fuori discussione. Solo così, l’aderenza sulla società civile consente di mietere il necessario consenso. Si tratta tuttavia di un confine mobile, che va ricercato caso per caso, aggiornando continuamente l’analisi, al fine di circoscrivere il rischio di un possibile spiazzamento. Fenomeno tutt’altro che raro nelle più recenti vicende politiche italiane. A partire dalla nascita, nel 1994, di Forza Italia, il cui dinamismo lasciò basiti tanti intellettuali organici della sinistra. Vicenda che fu bissata dal successo dei 5 stelle, nell’elezione del 2018. Quindi dalle Lega di Salvini, nelle successive elezioni europee, ed ora da Fratelli d’Italia, guidati da Giorgia Meloni. Successi, ai quali si accompagnò, una caduta più o meno repentina.

Potrebbe ripetersi? Il sospetto è evidente. Nessuna forza politica sopravvive ai propri errori. Nel caso di Fratelli d’Italia, poi vi sarebbe, semmai, un rischio in più. Non uno in meno. Come dicevano gli antichi: “nomine sunt consequentia rerum”, qual è allora l’elemento vocativo che è stato all’origine della scelta di quel nome, voluto da Meloni e Crosetto, contro la diversa proposta di La Russa? Quel lessico – Fratelli d’Italia – ha la sua radice semantica più nel Primo Risorgimento che non nel Secondo. Vale a dire la guerra di liberazione, contro il nazifascismo. È più figlia della “Giovane Italia” di Giuseppe Mazzini, che non della Carboneria di Filippo Buonarroti. Il cui settarismo contribuì ben poco alla nascita della Nazione. Tragitti che non andrebbero dimenticati, in quell’azione pedagogica rivolta a dare consapevolezza ai propri adepti, ma soprattutto a quegli irriducibili, che rischiano altrimenti di rimanere prigionieri di una trappola: quella del bel tempo andato.

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