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Matteo Renzi

Bene il piano-choc invocato da Renzi (ma prima servono le elezioni). Il commento di Polillo

Bravo Renzi: urge un intervento choc sull’economia. Ma i pannicelli caldi del rattoppo istituzionale servono a nulla. Serve un lavacro elettorale. L'analisi di Gianfranco Polillo

Difficile non essere d’accordo con Matteo Renzi, quando parla della necessità di un intervento choc sull’economia. Per la verità lui parla di un “piano”. Ma più che di un singolo atto, serve una vera e propria strategia, i cui tempi sono inevitabilmente più lungi rispetto alla semplice congiuntura. Comunque va bene, per iniziare, anche il “piano”. La cui realizzazione, per le cose proposte, non richieste neppure la disponibilità di ingenti risorse. Gli stanziamenti già approntati nel campo delle infrastrutture, ma non attivati, sono più che sufficienti per garantire l’avvio di una nuova stagione. Ciò che occorre è semplificare al massimo la giungla amministrativa, che toglie ogni voglia di fare. Il labirinto delle autorizzazioni. I giri di valzer tra le diverse Amministrazioni che servono solo per giustificare la loro esistenza in vita: forti di un potere se non di interdizione, almeno di astratta certificazione.

Un’operazione di semplice buon senso: almeno in apparenza, se non fosse per una tradizione amministrativa che rema contro. Che giustifica i mille passaggi burocratici con una sorta di terrorismo psicologico: lotta all’abuso, contenimento della corruzione e via dicendo. Come se, grazie a questi controlli, l’Italia fosse il Paese più virtuoso del Continente. E non il luogo in cui scempio dell’ambiente, malversazioni e livelli di evasione la fanno da padrone. Comunque sia, non sarà un’operazione facile. Come mostrano tutti i tentativi fatti, da destra e da sinistra, per semplificare, abolire norme desuete, razionalizzare l’intera filiera amministrativa. Cosa che rafforza quanto si diceva in precedenza: più che un “piano choc” serve una strategia. Che, a sua volta, presuppone un quadro politico che è l’esatto contrario di quanto, ogni giorno, si è costretti ad osservare. Basti pensare alla convocazione di quei 40 membri della maggioranza per tentare di dirimere le principali controversie. Evento che ricorda da vicino la passata esperienza dell’Ulivo.

Per tornare a Renzi, l’esigenza è giusta. Ma rischia di dimostrarsi di difficile attuazione. Specie quando si ha a disposizione solo qualche mese, in attesa di quelle tornate elettorali, a partire dall’Emilia Romagna, che, con ogni probabilità, cambieranno la geografia politica dell’Italia. Vale comunque la pena tenerla a mente, quella proposta, e coltivarla per l’immediato futuro. Tanto più se si dovesse tornare, quanto prima (cosa auspicabile), ad elezioni generali. Nel qual caso questa consapevolezza dovrebbe costituire il pivot dei principali programmi da sottoporre alla valutazione del popolo. Piuttosto che insistere su schemi ideologici, che lasciano il tempo che trovano. E rappresentano un lusso di cui che l’Italia non può più permettersi.

Non lo poteva ieri, a maggior ragione non può farlo per il futuro. La sua crisi non è destinata ad attenuarsi. Al contrario. Dagli ultimi dati, forniti dalla Commissione europea, non risulta soltanto il suo striminzito tasso di sviluppo, fatto registrare negli anni passati. Quella maglia nera indossata in tutte le classifiche internazionali. Risulta soprattutto il suo progressivo e prospettico ridimensionamento. Negli ultimi anni (dal 2015 fino alla prospettiva del 2021) il suo potenziale produttivo è cresciuto, in modo cumulato, solo dello 0,6 per cento. Nell’Eurozona dell’8,7 per cento. Nonostante ciò l’output gap (la differenza tra quanto si poteva crescere e quanto si è verificato) è stato di circa 9 punti, contro una media del 3,3 per cento.

E’ un’ipoteca grave. Dimostra il pericoloso restringimento delle basi produttive del Paese. Il cui perimetro è garantito solo dal flusso di esportazioni. Secondo l’Istat, in 10 anni, il loro peso sul Pil è cresciuto dal 22 al 31 per cento, mentre i consumi ed investimenti sono diminuiti rispettivamente di 2 punti. Le importazioni, a loro volta, sono aumentate dal 23 al 29 per cento. Ma servono soprattutto come base indispensabile per le successive esportazioni, dato il carattere manifatturiero dell’economia italiana. Senza una ripresa del mercato interno, quindi, tentare di aumentare il tasso di crescita complessivo del Paese diventa una grande illusione. Dati quei rapporti, e scontando la stasi dei consumi, le esportazioni dovrebbero crescere di 4,5 punti di Pil, per ottenere un aumento del reddito nazionale di 1 punto. Dato che 1,5 punti verrebbero presi dalle maggiori importazioni. Una prospettiva irrealistica che sconta una loro crescita di oltre il 14 per cento, su base annua. Contro uno scarso 6 per cento certificato.

Come si può vedere il “modello di sviluppo” che si è consolidato, l’indomani del 2012, è giunto al capolinea. Ha dato tutto quello che poteva dare. Nasce da qui la necessità di un’inversione di tendenza possibile solo se si ha la forza di porre la questione dello sviluppo al centro dell’agenda politica. Lasciando ad un domani migliore l’impegno per intervenire sul welfare. Come del resto è sempre stato nella nostra storia nazionale. Quando la ridistribuzione della ricchezza fu solo atto conseguente all’avvenuta ripresa produttiva. S pensi solo alla nascita del “centro-sinistra”, all’indomani degli anni ’60. Che seguì il periodo della “ricostruzione industriale”: che aveva consentito ad un Paese, in precedenza lacerato dalla guerra, di lenire le ferite e tornare ad essere protagonista della vita internazionale.

Un programma così impegnativo, che è l’unico antidoto reale all’inevitabile declino, richiede una grande consapevolezza, a livello di massa. Per questo i pannicelli caldi del rattoppo istituzionale servono a nulla, ma comportano solo un aggravamento della malattia. E’ necessario, invece, un confronto, a tutto campo, tra le forze politiche che puntano alla direzione del Paese. Un lavacro elettorale, come si diceva una volta. E che alla fine vinca il migliore. Senza temere eventuali saldi nel buio, perché quella che ci circonda è già la grande notte della Repubblica.

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