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San Marco

Perché San Marco non ha vissuto a lungo

Il primo lancio del San Marco avvenne il 15 dicembre 1964 da Wallops Island, lungo la costa orientale della Virginia, ma è solo da un buon paio di anni che la data viene celebrata come la giornata dello spazio in Italia. L'approfondimento di Enrico Ferrone

In principio era lo spazio italiano.

Lo è stato per un po’, il tempo che un generale Genio Aeronautico mandasse negli Stati Uniti i suoi allievi migliori, che li riportasse in Patria all’Università di Roma La Sapienza per condividere e consolidare alcune intuizioni da sperimentare e rendere operative, per poi trasformarle in oggetti funzionali. Nacque così il progetto San Marco. Un’idea ambiziosa, che partiva da un Paese uscito da poco da una guerra tremenda e senza vittorie. Inviare una sonda a una quota compresa tra i cento e i mille chilometri di altitudine per studiare le condizioni ambientali in regioni dello spazio poco esplorate lo avevano fatto in pochi: Unione Sovietica, Stati Uniti e forse Canada. E ora l’Italia.

Il primo lancio del San Marco avvenne il 15 dicembre 1964 da Wallops Island, lungo la costa orientale della Virginia, ma è solo da un buon paio di anni che la data viene celebrata come la giornata dello spazio in Italia. La storia è nota. Verosimilmente, la più affidabile è stata raccontata da Carlo Buongiorno – primo direttore generale dell’Agenzia Spaziale Italiana – ne “Lo spazio di una vita” edito diversi anni fa da LoGisma.

Si parla spesso di primati ottenuti dall’Italia nello spazio e bisogna dire che l’intuizione di Luigi Broglio di organizzare una base di lancio equatoriale al largo del Kenya con dei vettori americani ebbe sicuramente una parte importante nell’intero destino del progetto. Chi vuole approfondire il tema troverà molte risposte utili nel testo segnalato.

San Marco fu un progetto importante per l’Italia. Grazie all’opera fattiva del team di ricercatori che si stava coagulando con Broglio e Buongiorno, si è radicata una scuola in Italia, si sono formati molti scienziati e si sono tracciati dei percorsi che avrebbero poi consentito la generazione di posti di lavoro e la partecipazione a prestigiosi programmi internazionali. E, non da meno, San Marco ha assicurato la fiducia degli Stati Uniti d’America, la cui delegazione guidata dall’allora vice presidente Lyndon B. Johnson firmò il 7 settembre 1962 a Roma un accordo con il capo della diplomazia italiana Attilio Piccioni per poter definire le parti più strategiche di quello che si sarebbe fatto. Il suo valore era di 4,5 miliardi di lire da suddividersi in tre anni. Con gli atti sottoscritti alla Farnesina gli americani garantivano il supporto alle fasi di accesso allo spazio all’Italia e cristallizzavano una distanza da alleanze ai più importanti programmi dei paesi europei con capacità nucleare -Francia e Gran Bretagna- allungando poi gli spazi dalla sempre più nemica Unione Sovietica che da poco aveva aperto la via degli Sputnik facendo andare in visibilio i giornali ufficiali del Partito Comunista Italiano.

Il burattinaio dell’intera operazione fu Amintore Fanfani, un aretino, caposaldo della Democrazia Cristiana; uomo politico discusso e criticato ma anche amato, che fu sicuramente padre di alcune basi di costruzione sociale del nostro Paese.

Ma per quanto il San Marco mostrò una sua rapida crescita senza insuccessi – e non è poco in un campo così pieno di incertezze – come racconta la letteratura un po’ annacquata che circola sulla rete, raggiunto il massimo sviluppo con il lancio del San Marco 2 dalla piattaforma equatoriale nel 1967, il progetto entrò in una fase difficoltosa che degenerò in momenti di completa paralisi prospettica.

Quanto accaduto non si discosta della sottile ma indistruttibile linea della litigiosità che governa sempre ogni attività nazionale. Fu così anche per lo spazio italiano. Troppi personalismi, troppe interferenze, troppe ingenuità gestionali impedirono il prosieguo di quello che sarebbe stato un percorso scientifico che non poteva avere soluzioni di continuità o indeterminatezze manageriali.

Sarebbe banale richiamare i difficili scenari che avvolgevano quegli anni: la crisi economica che investì l’Italia negli anni Settanta, culminando con lo shock petrolifero del 1973-1974 fu inesorabilmente spiazzante per un’economia fragile e nel continuo affanno della propria condotta. Poi in quegli anni dopo un lungo iter -iniziato nel 1962 e 1964- fu fondata l’Agenzia Spaziale Europea, a Parigi naturalmente, portando l’Italia a una scelta europea senza grandi alternative che potessero avere una connotazione autonoma. E infine, la Luna era stata appena raggiunta e calpestata abbondantemente dagli astronauti della Nasa (1969-1972) e gli americani iniziavano a mostrare insofferenza per esibizioni extraatmosferiche sovresposte mediaticamente e non da tutti comprese. La conseguenza fu che il programma Apollo finì prima del tempo previsto e l’agenzia simbolo della punta più elevata della ricerca mondiale, interessata a una sua posizione preminente, propose un progetto di vettore recuperabile, lo Space Shuttle, che fece sognare per tutti l’abolizione dei lanciatori a perdere. La base di Malindi fu per questo vista come un “ferro vecchio” in mezzo a un oceano troppo lontano da casa.

Non bastò che Broglio mantenesse viva l’attività presso il centro spaziale specialmente tra il 1970 e il 1974 grazie alla messa in orbita di satelliti per conto di Stati Uniti e Gran Bretagna e all’invio di diverse sonde italiane. Tuttavia, per quanto il vecchio generale ostacolasse la simbiosi tra i suoi progetti e un’industrializzazione dei manufatti, alcuni know-how furono comunque capitalizzati da vecchie commesse che hanno reso nel tempo l’Italia leader di produzioni radaristiche di cui ancor oggi il Paese ne è fiero.

Seguirono in Italia crescite industriali un po’ a macchia di leopardo che come sempre marcarono i percorsi solitamente pindarici, continuamente oscillanti tra scelte atlantiste e impegni continentali del Bel Paese. E poi le dolorose fusioni -siamo nel 1993- che trascinarono migliaia di famiglie per strada a causa di ridondanze e sovrapposizioni di produzione sia in campo aeronautico che spaziale. Lo strano fu però che chi ne aveva determinato il divenire fino ad allora rimase comunque sempre in sella alle posizioni di comando!

La ripresa non fu facile. Realtà come Selenia e Aeritalia, fusesi con un’unica denominazione, erano molto diverse e della loro stabilizzazione ancora oggi ce n’è qualche memoria.

Ma lo spazio italiano non poteva restare italiano. Per diversi motivi. Qualcuno è stato indicato da un Libro bianco pubblicato dieci anni dopo dalla Commissione europea che intendeva rivedere l’intero settore europeo sotto un’unica traiettoria funzionale. Molte buone intenzioni ma è stata dominante l’espressione delle principali potenze che hanno puntato su una riduzione delle imprese “prime”, per poi voler comunque continuare a dettar legge su quale paese avesse più merito a detenere la leadership e stringere da solo il timone della storia.

Ora, è fuor di dubbio che in Europa, nonostante gli atteggiamenti mai sopiti di primazia francese, nessuna nazione possa permettersi il lusso di godere una posizione di autonomia spaziale. Non sarebbe possibile dal punto di vista industriale, tecnologico e nemmeno commerciale. Altra cosa, quando si sono riconfigurate nuove fusioni è stata la ripartizione delle attività, il peso delle figure professionali a capo delle unità operative e la qualità di ogni singola lavorazione assegnata. Non sembra che in quelle fasi buon senso, ragione e consapevolezza politica fossero del tutto allineati!

Oggi in Italia si torna a parlare di rivedere qualche assetto societario che lega il nostro core business all’industria francese. Lo ha comunicato recentemente StartMag (9 ottobre 2023) a margine del Salone Cybertech Europe 2023. Non conoscendone i dettagli, restiamo serenamente in attesa dei futuri sviluppi. Che promettiamo di seguire con il necessario impegno.

Va ricordato, a chi dagli scranni della politica vuol ancora fare del sovranismo senza controllo, che la partita è molto delicata e che la credibilità della nazione non si giudicherà dalle immagini che comportano la partecipazione o meno a un progetto spaziale, quanto alla sua valenza strategica, al peso occupazionale -ma soprattutto qualitativo- a cui devono rispondere i propri impianti. Non dimentichiamo che in Italia continua un esodo senza argine di neolaureati in ingegneria verso l’estero. Tra tutti, questo è il più significativo indice del malessere che pervade nella vita professionale del Paese.

Non può mancare, a termine di questo scritto, la citazione di un banchiere tutto “Made in Italia”: «Le azioni si pesano». E forse il riferimento non è semplicemente il conto dei titoli bancari. Occorre anche farli valere.

 

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