Intervistato da La Stampa durante il Forum economico mondiale di Davos, Pat Gelsinger, amministratore delegato della società americana di microchip Intel, ha detto che l’azienda è disposta a investire in Europa anche “in modo massiccio”, ma ha bisogno della “partecipazione dei governi”.
Gelsinger conferma una realtà nota da tempo: uno stabilimento per la produzione di semiconduttori avanzati richiede un investimento da decine di miliardi di dollari e circa quattro anni per essere costruito. Già la ex-cancelliera tedesca Angela Merkel aveva detto, a questo proposito, che “la produzione di chip competitivi, dalle dimensioni di 3 o 2 nanometri, per esempio, è sostanzialmente impossibile senza sussidi statali”.
GLI OBIETTIVI DELL’UNIONE EUROPEA SUI MICROCHIP
I microchip, o semiconduttori, sono componenti necessari alla realizzazione di automobili, computer, elettrodomestici, smartphone e dispositivi tecnologici simili, tra le altre cose: sono dunque cruciali per lo sviluppo futuro e la competitività delle economie.
L’Unione europea, gli Stati Uniti, la Cina e molte delle altre maggiori economie mondiali stanno lavorando per “riportare a casa” la manifattura di microchip, cioè per installare fabbriche direttamente sul proprio territorio o nelle immediate vicinanze, in modo da garantirsi la certezza degli approvvigionamenti. C’è infatti una crisi delle forniture di questi componenti che va avanti da molto tempo e che, secondo Gelsinger, difficilmente si risolverà “prima del 2024”.
Attualmente l’Unione europea vale meno del 10 per cento della produzione globale di semiconduttori; l’obiettivo della Commissione è di portare quella quota al 20 per cento entro il 2030 e, per farlo, ha messo a punto un piano di stimolo per il settore ancora un po’ vago (lo European Chips Act). La manifattura e il confezionamento dei chip si concentra in Asia, in particolare a Taiwan e in Corea del sud; il segmento della progettazione di questi componenti, invece, è dominato dagli Stati Uniti.
COSA VUOLE FARE INTEL IN EUROPA
Intel ha un grande piano di investimento per l’Europa, da circa 80 miliardi di dollari, dove intende creare un sistema integrato per i microchip: significa che non vuole concentrare tutte le fasi della catena del valore in un singolo stato, ma distribuirle in varie parti del continente. Ad esempio, ha intenzione di aprire due fabbriche in Germania, a Magdeburgo, tra il 2025 e il 2027. L’azienda ha inoltre raggiunto un accordo di principio con l’Italia per l’apertura di un impianto di testing e confezionamento (dal valore, forse, di 4 miliardi).
LA RICHIESTA DI INCENTIVI
Considerata la mole di capitali necessari e i lunghi tempi di costruzione, Gelsinger ha detto alla Stampa che Intel ha bisogno di stabilità politica, di legislazioni favorevoli e di “incentivi per la produzione di chip”. L’Unione europea permette l’erogazione di sussidi per gli impianti di semiconduttori, a patto però che questi ultimi siano di grado avanzato; non sembrano tuttavia essere questi i componenti maggiormente richiesti dalle industrie europee, principalmente automobilistiche e non tecnologiche.
CAMBIARE APPROCCIO ALLE FILIERE?
L’amministratore delegato di Intel sostiene poi che “bisogna passare da una supply chain che finora è stata secondo il principio del just in time a una basata sul modello just in case“.
Con just-in-time ci si riferisce a un modello di approvvigionamento pensato per essere “snello” e per ridurre al minimo le scorte e i tempi di attesa tra il momento in cui i materiali arrivano nella fabbrica e quello in cui vengono trasformati in prodotti finiti. Un modello di questo tipo punta a minimizzare i costi di produzione e prevede tantissimi passaggi in giro per il mondo; ha funzionato bene per tanto tempo, ma è andato in crisi con la pandemia di coronavirus e i suoi apri-chiudi continui.
Un approccio just-in-case, al contrario, presta maggiore attenzione alla conservazione delle scorte per mitigare i contraccolpi alla produzione di eventuali intoppi logistici e per rispondere ad aumenti improvvisi della domanda da parte del mercato.
È LA FINE DELLA GLOBALIZZAZIONE?
La pandemia di coronavirus e la competizione geopolitica tra Stati Uniti e Cina sembrano aver indotto a un ripensamento della globalizzazione. Non a caso, si sta parlando molto di “regionalizzazione” e di “accorciamento” delle filiere: non più sparse nel mondo, cioè, ma concentrate in prossimità dei mercati ultimi. I vari anelli della catena del valore, inoltre, verranno installati in paesi alleati, per ridurre il rischio che governi ostili ostacolino o blocchino le forniture di materie prime e componenti essenziali: in questo caso, si utilizza il termine friend-shoring (o, più semplicemente, di “globalizzazione tra amici”).
Secondo Pat Gelsinger, però, non stiamo assistendo alla fine della globalizzazione “perché oggi siamo più interconnessi che mai. Però bisogna cambiare mentalità e attitudine nella produzione di chip e semiconduttori”, ovvero ridurre la dipendenza manifatturiera dall’Asia.