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Auto Elettriche

Vi racconto la guerra mondiale per i chip. Parla Aresu

Esiste una guerra mondiale "invisibile" sulla tecnologia, e in particolare sui chip, spiega l'analista Alessandro Aresu, autore del saggio "Il dominio del XXI secolo", edito da Feltrinelli. Tutte le mosse di Stati Uniti, Cina e Italia - e il differente peso avuto dagli Stati - nell'intervista di Startmag

Cosa sono i chip e perché si è innescata una guerra senza quartiere tra Stati Uniti e Cina per il controllo della loro produzione? Che ruolo ha avuto lo Stato nell’orientare lo sviluppo della supply chain dei chip? E che spazio si è ritagliato il nostro paese nel mercato globale dei semiconduttori?

A queste domande risponde, in un’intervista per Start Magazine, l’autore di un saggio che meglio di altri illustra le caratteristiche e le sfide di un settore economico sempre più fondamentale oltre che centrale nella nostra vita quotidiana. Stiamo parlando di Alessandro Aresu, consigliere scientifico della rivista di geopolitica Limes e autore di Il dominio del XXI secolo, edito da Feltrinelli.

Aresu, innanzitutto cos’è un chip?

I chip, divisi in vari gruppi di prodotti, tra cui microprocessori, memorie, sensori, sono componenti elettronici basati su semiconduttori come il silicio, così chiamati per le loro proprietà elettriche. In estrema sintesi, sono dispositivi sempre più accurati che caratterizzano tutta l’informatica e l’elettronica avanzata, che è chiamata microelettronica perché questi dispositivi sono sempre più piccoli e precisi.

La nostra vita digitale si basa su questi oggetti e sulla loro evoluzione, da settant’anni a questa parte. Tutto quello che noi facciamo, compresa questa conversazione telefonica, esiste perché c’è questo sostrato tecnologico. Senza tali dispositivi noi non potremmo utilizzare nessuno degli strumenti con cui comunichiamo così come non potremmo utilizzare le automobili, i sistemi di armamento o gli elettrodomestici. Stiamo parlando dunque della base delle nostre vite, in quest’epoca della storia dell’umanità.

Com’è strutturata l’industria dei chip?

Come per ogni dispositivo tecnologico, esistono dei luoghi in cui essi sono stati pensati, letteralmente inventati, in particolare negli Stati Uniti, e dei luoghi in cui sono prodotti. Bisogna tenere presente che il processo produttivo di chip ha generato un’industria estremamente complicata e diversificata.

Ciò significa che non esiste al mondo una organizzazione unitaria ma una supply chain molto complessa che include, tra l’altro i software con cui progettare i chip, le aziende dedicate alla progettazione dei chip, i componenti chimici e i gas e che sono necessari nei processi produttivi, i macchinari e la strumentazione necessari per la stessa produzione, infine la produzione che avviene in enormi fabbriche, poi i test necessari per avere dei chip funzionanti. Tutti questi processi sono molto importanti perché ci portano al prodotto finito.

Ci sono paesi che hanno capacità in questa industria e altri che non ne hanno: il numero di paesi che hanno tali capacità non è ampio ma nemmeno piccolissimo; a tutt’oggi i paesi più importanti sono gli Stati Uniti, la Corea del Sud, il Giappone, Taiwan.

E il controllo di questa industria è al centro della competizione tra Stati Uniti e Cina, perché i chip sono la principale voce di importazione della Repubblica popolare che vuol rendersi progressivamente sempre più autonoma e autosufficiente in questo settore. Le conseguenti politiche di Pechino, come Made in China 2025, hanno generato profonde reazioni da parte degli Usa, e questa è la principale macrotendenza di questa industria negli ultimi sette anni. Il modo migliore per seguire questi processi è abbonarsi a Nikkei Asia e leggere la più brava giornalista al mondo sull’argomento, che si chiama Cheng Ting-Fang.

E qui veniamo alla cosiddetta ‘guerra dei chip’, che nel suo libro lei descrive con un aggettivo: invisibile.

Le dico subito cosa indica quell’aggettivo misterioso. Invisibile sta a identificare due cose: in primo luogo, poiché parliamo di microelettronica, stiamo parlando di processi che non sono visibili a occhio nudo e quindi sfuggono letteralmente alla nostra vista. Qui abbiamo a che fare in alcuni casi con processi avveniristici, come le modalità di incisione del plasma, l’epitassia, la litografia ultravioletta estrema, tutte cose quasi da fantascienza che però esistono e vengono ripetute su scala industriale milioni e milioni di volte. In secondo luogo, l’aggettivo invisibile è pertinente perché le imprese tra cui si combatte questa guerra sono pressoché ignote rispetto alla loro enorme importanza. Queste stesse aziende sono alla base del funzionamento e dell’operato di realtà più celebri, come le cosiddette Big Tech.

Ci sono quindi, ripeto, aziende che fanno parte della nostra vita quotidiana e portano nomi come Intel, Samsung, Tsmc eccettera, ma ne potrei citare molte altre meno note, dall’olandese Asml alla tedesca Trumpf fino a fondamentali aziende americane quali Synopsys, Applied Materials, Lam Research. Queste aziende sono giganti sostanzialmente invisibili per un vasto pubblico, malgrado il loro consistente fatturato: si pensi che la sola Applied Materials ha fatturato nel 2021 ben 23 miliardi di dollari.

Nel suo libro emerge chiaramente il ruolo determinate dello Stato che, con le sue politiche e i suoi investimenti, è in grado di orientare lo sviluppo di questa industria. E’ esatto?

È fondamentale sottolineare che stiamo parlando di un’industria che non si basa solo sulle logiche di mercato, ma su una dose sostanziosa di intervento pubblico, che però varia da stato a stato secondo una casistica differenziata che va studiata guardando alle singole realtà. Non c’è quindi un modello generico di intervento statuale da applicare, anche se ci sono alcuni processi, per esempio in Asia orientale, descritti tra l’altro in un bel libro di qualche anno fa, Tiger Technology.

Facciamo qualche esempio.

In paesi come Corea del sud e Taiwan ci sono stati specifici interventi dello stato attraverso incentivi fiscali, ma anche e soprattutto con la costruzione di ecosistemi che comprendono aspetti rilevanti come la formazione e la ricerca.

Altri esempi?

Un altro esempio ci viene dalla storia degli Stati Uniti, in cui il principale intervento pubblico ha riguardato la nascita di questa stessa industria, che ha avuto senz’altro inizialmente un’impronta militare molto forte ma poi si è evoluta con dinamiche di mercato, con lo sviluppo a partire dagli anni Sessanta dell’elettronica di consumo. Gli Usa però a un certo punto si sono trovati a misurarsi con l’ascesa commerciale del Giappone e nel contrasto con questo paese il ruolo dello stato si è rivelato estremamente complesso, basato su un principio chiave ma problematico quale la difesa della sicurezza nazionale. Gli Usa hanno perciò impiegato strumenti di protezione commerciale (come i dazi di Ronald Reagan), ma soprattutto si sono attivati per impedire al Giappone di mettere le mani su alcune storiche aziende nazionali di semiconduttori. È proprio in questa fase che nasce l’odierno sistema Usa di controllo degli investimenti esteri. Poi però il successo Usa rispetto al Giappone negli anni ’90 deriva anche da aspetti di mercato, in particolare il rilancio di Intel.

E in Europa? E in Cina?

Nella storia del principale successo europeo in questo campo, quello dall’olandese Asml (azienda che alla fine di questo decennio punta ad arrivare a 40-60 miliardi di fatturato), il ruolo del pubblico è stato invece poco incisivo. Per quanto concerne invece il caso cinese, abbiamo visto negli ultimi quindici anni l’attivazione di molti interventi e investimenti pubblici, che però non sono riusciti a risolvere il problema principale della Cina che è il controllo da parte degli Usa di alcuni segmenti cruciali della supply chain. I cinesi hanno canalizzato decine e decine di miliardi per conseguire questo obiettivo, che però non è stato raggiunto. Ora, anche per ragioni politiche, vediamo e vedremo un aumento di incentivi a livello globale.

E l’Italia che ruolo è riuscita a ritagliarsi in questo ecosistema?

Anzitutto, come ho detto all’inizio, bisogna ricordare che ci sono paesi che esistono come attori attivi dentro la supply chain dei chip e paesi che ne sono meramente clienti. E l’Italia, pur non essendo nella primissima fascia, è uno dei paesi che ha delle realtà produttive importanti.

C’è una lunghissima storia di competenze che nascono fin dal 1957 in Brianza grazie a figure come Floriani, fondatore di Telettra, e Roberto Olivetti con una società che si chiamava SGS e che oggi nelle sue varie incarnazioni è divenuta l’azienda italo-francese STM, uno dei principali attori europei della filiera, soprattutto su automotive e industria, e uno dei principali investitori di ricerca e sviluppo in Italia. “Una storia di pionieri”, per riprendere il titolo del libro che dà voce ai protagonisti italiani di questa vicenda, dagli anni ’50 a oggi. Attorno a STM, è nato uno dei principali ecosistemi di ricerca e tecnologia del Sud Italia, che si trova a Catania ed è attivo in tecnologie importanti e promettenti come il carburo di silicio e il nitruro di gallio.

Ma nella supply chain ci sono altre aziende interessanti, come quella di Giuseppe Crippa, che ha lavorato per STM e dopo essere andato in pensione ha fondato la Technoprobe di Cernusco Lombardone, specializzata in sistemi di test per la supply chain e in questa nicchia è un leader mondiale. Poi ci sono altre aziende nazionali poco note e importanti come Spea, Seco e Sapio, che ha appena celebrato un secolo di attività. Nell’ecosistema allargato possiamo anche considerare Datalogic, leader mondiale di Bologna nell’acquisizione automatica dei dati, fondata cinquant’anni fa.

L’ecosistema italiano ha dunque una sua consistenza e ha tra l’altro eccellenti capacità nell’ambito della ricerca all’interno del CNR e di diverse università.

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