skip to Main Content

Intelligenza Artificiale

Chi ha paura dell’Intelligenza artificiale?

L'intervento di Giuseppe Sacco, docente di Economia e Relazioni internazionali

 

Che l’invenzione dell’intelligenza artificiale abbia suscitato molti timori è più che noto. Così come è del tutto evidente che questi timori continuino a moltiplicarsi man mano che fasce sempre nuove del pubblico di Internet si trovano a confronto con quel formidabile strumento di comunicazione e di ricerca che sono i chatbot, e sopratutto ChatGPT, che allo stato attuale sembra il più potente e popolare tra questi.

Si tratta di timori di cui non si può – francamente – essere sorpresi.

A molti infatti, questo primo strumento per l’accesso di massa alla AI è parso come la traduzione in realtà di un obiettivo della ricerca tecnologica e scientifica considerato fino a non molto tempo fa puramente immaginario, anche non del tutto inverosimile. Una conquista alle cui possibili conseguenze avevano accennato solo autori di romanzi o di film rimasti per molti decenni popolari e celeberrimi, ma libri e film scritti o girati solo per far provare al loro pubblico un eccitante brivido di paura. Da Frankenstein, or the modern Prometheus dove la creatura mostruosa sfugge di mano del suo creatore, sino al computer Hul di 2001 Odissea nello spazio, il cui tentativo di assumere il controllo dell’astronave, porta una reazione dell’unico essere umano sopravvissuto, che non esita a distruggere la macchina su cui si fondava il tentativo di conquista dell’universo da parte dei nativi terrestri.

Un rapporto ambiguo

Nel buio e nel raccoglimento quasi religioso che prevaleva nelle sale cinematografiche, la reazione degli spettatori – tutti esseri umani – era stata decisamente ambigua. Da un lato, non c’era alcun dubbio che la straziante agonia del computer man mano che gli venivano sottratte le sue componenti vitali li facesse soffrire. Perché con quella macchina, e con l’avveniristica ambizione che essa incarnava, essi erano entrati – come si direbbe oggi – in empatia. Cioè perché in quella macchina riconoscevano la propria naturale ed inestinguibile proiezione verso la conoscenza e verso l’assoluto. Ma dall’altro lato, era chiaro quanto essi temessero il dominio della macchina artificiale sui loro simili. E come fossero unanimi nella convinzione che questa, se mai avesse tentato di sfuggire al loro controllo, andasse abbattuta sul nascere.

Questo rapporto tra la società degli uomini e la loro creatura è quella che ancora oggi si manifesta di fronte alla necessità di decidere sulle future applicazioni della AI. Non c’è dubbio che questa, l’Intelligenza Artificiale, sia una creazione ed un dominio quasi esclusivo di tecnici, matematici ed informatici. E che saranno soprattutto questi a garantirne i prossimi sviluppi. Ma la ricerca, le scelte e le decisioni non toccano soltanto a loro, perché tutti gli altri risvolti dell’attività intellettuale e sociale degli uomini vengono in maniera diversa coinvolte nella prospettiva di una convivenza tra esseri umani e macchine pensanti.

Sociologi ed economisti ne calcolano già all’impatto sul mercato del lavoro, la possibile sostituzione dei lavoratori umani nell’attività di produzione della ricchezza. Ma filosofi e politici inevitabilmente si interrogheranno, anzi già si interrogano, su un altro tipo di conseguenze, quelle che queste macchine straordinarie provocheranno nella distribuzione del potere e dei modi del suo esercizio. E quindi dei rimedi cui sarà forse necessario ricorrere per imbrigliarne lo sviluppo, per impedire che le nuove tecnologie scuotano troppo violentemente la piramide sociale.

Tutti i principali paesi, negli ultimi mesi, si sono posti questi problemi, e non può quindi sorprendere il governo italiano vi abbia fatto ricorso con la creazione di un gruppo ufficiale di riflessione e di proposta legislativa sull’argomento. Anzi, addirittura di due gruppi di riflessione le cui caratteristiche e competenze sembrano almeno parzialmente sovrapporsi. E il più recente dei quali ha però sollevato qualche perplessità proprio a massimi livelli di governo. Che, come tutte le strutture di potere non riesce a nascondere i propri timori di fronte a questo nuovo gigantesco passo delle conoscenze e della creatività umana.

Tra tecnica e diritto

Ma la nomina alla testa della Commissione di studio sulla AI nel settore dell’editoria di un giurista e magistrato di lunghissimo corso come Giuliano Amato non ha sollevato solo l’irritazione della premier Giorgia Meloni, cui questi è apparso troppo avanti negli anni. Questa nomina – ma ancor più il conferimento di un tale ruolo scientifico intellettuale ad un giurista – è parsa creare addirittura lo sgomento di un suo collega di governo, l’iper-attivo Matteo Salvini: “Mettere un costituzionalista ad occuparsi di Intelligenza artificiale lo trovo curioso”, ha detto infatti il vice-premier.

Chiuso nei suoi giochi di potere, Salvini non si rende evidentemente conto di quanto sia vero il contrario. E cioè di come i giuristi siano destinati sempre più a “confrontarsi con gli scenari inediti che si schiudono con la massiccia utilizzazione degli algoritmi e, in generale, delle nuove tecnologie”. E di come la nascita di macchine in grado di prendere decisioni autonome cozzi con “uno dei cardini del pensiero giuridico moderno, costituito dalla possibilità di imputare una condotta ad un soggetto” che possa essere ritenuto responsabile. Si tratta di problemi emersi chiaramente nel campo dei veicoli senza conducente, e che hanno fatto si che oggi sia già in attività, in Cina, l’aero taxi senza pilota, e che in tutti i paesi più avanzati venga presa in considerazione la prospettiva di abolire questa figura alche sugli aerei di linea, ma si sia lontanissimi da un’auto che riesca fare tutto da sé nel traffico di superficie.

Tra “nuovo” e “vecchio”

Diverso il caso del “giovanilismo” della Meloni. Da un lato, le sue perplessità nei confronti della presidenza affidata ad un ottantacinquenne appaiono criticabili, soprattutto se si tiene conto del fatto che i futuri sviluppi tecnologici dell’intelligenza artificiale generativa – e più precisamente delle Intelligenze Artificiali (al plurale) – sembrano promettere il prolungamento dell’attività intellettuale di singoli esseri umani oltre il limite della loro vita fisica. Il che trasformerebbe in un patrimonio insostituibile tutto il pensiero e l’esperienza accumulati prima dell’incontro di ciascun individuo con la AI generativa.

Dall’altro lato, però, è probabile che Meloni ritenga – perché l’Italia non resti indietro agli altri paesi in un campo che è già oggetto di rivalità scientifiche e tecnologiche – che un progetto che promette un balzo straordinario verso l’avvenire, vada affrontato con concretezza. E che, se esso indubbiamente richiede che lo si affronti con prudenza, debba comunque essere affidato non già a anziani soloni che ogni rottura col presente rende pieni di dubbi e di timori, bensì a intelletti senza troppi attaccamenti affettivi per il passato, e rivolti al nuovo, quali in genere si ritiene siano le persone anagraficamente più giovani.

Meloni non sarebbe sola in questo convincimento. Molto spesso, nel dibattito che ferve in tutti i principali paesi su questo tema, è stato infatti fatto notare che in Gran Bretagna – che con gli Stati Uniti è probabilmente il paese più avanzato nella ricerca sulla AI – a capo di un organo simile a quello appena creato nel nostro Paese è stato posto un trentottenne, Ian Hogarth, laureato in ingegneria informatica, specializzato in machine learning ed imprenditore nel settore digitale.

Londra ha insomma deciso di puntare le sue carte su un uomo che non solo è uno specialista del settore, ma anche una personalità che appartiene ad generazione precisa; quella la cui formazione ha coinciso in pieno con gli sviluppi della tecnologia che ci hanno portato – con un forte anticipo rispetto era stato sino a ieri previsto – alla concreta possibilità che la macchina raggiungesse e superasse l’uomo in un campo in cui esso era sempre stato il dominatore assoluto.

La prudenza dei tecnici

Va detto però, che nel marzo del 2023, lo stesso “giovane” Hogarth è stato tra i firmatari di un appello perché da tutti coloro che fanno ricerca e applicazione in questo settore venisse osservata una pausa anche se di soli sei mesi – verrebbe da dire “una tregua” – nello sviluppo di sistemi AI di potenza superiore al GTP-4, cioè del modello professionale di quel ChatGPT che è offerto da Internet all’accesso universale.

Assai interessante il riferimento a GPT-4 come traguardo tecnologico una volta raggiunto il quale una pausa di riflessione appare opportuna. Tale riferimento mette in luce la differenza tra le corsa attualmente in atto per la creazione delle molte AI generative e quella per l’AI tout court. Se un allarme limitato, o addirittura nessun allarme, è stato sollevato dal fatto che qualche azienda privata (non solo americana ma anche sud-coreana) sia ormai in grado di offrire – e ad un prezzo accessibile a una famiglia di classe media – la “resurrezione di un caro estinto, lo stesso non vale per GPT-4.

Quest’ultimo – come peraltro anche i vari modelli suoi concorrenti o imitatori che possono essere raggiunti sulla Rete – sembra infatti essere un eccellente punto di partenza per dare vita a quella che lo stesso Hogarth chiama la “God-like AI”. Simile a Dio, ma assai simile anche all’uomo, visto che “i modelli più potenti stanno cominciando a dimostrare capacità complesse come ambizioni di potere, o modi per deliberatamente tranne in inganno gli esseri umani”.

Una pausa concordata tra gli operatori del settore – ha scritto Hogarth – sarebbe una mossa importante per guadagnare tempo da dedicare alla ricerca sulla sicurezza dei sistemi di Intelligenza Artificiale. Ed è probabilmente con analogo intento che, assieme a lui, hanno firmato l’appello più 1.800 scienziati del settore. E non solo “anziani” come il 73enne Steve Wozniak, che ebbe un ruolo pari a quello di Steve Jobs nella creazione della Apple, ma anche veri e propri “visionari”, i nostri contemporanei “creatori di futuro”, come Elon Musk . Il quale – come ha egli stesso spiegato – è proprio perché consapevole dei rischi del presente che si è sempre audacemente, e ripetutamente, proiettato, con iniziative estremamente ambiziose, verso l’avvenire.

Back To Top