Parler, il social network simile (e rivale) a Twitter, è scomparso dal web.
Il sito web ufficiale di Parler ora restituisce un errore 403, mentre la sua app mostra errori di rete e non può caricare contenuti.
Nelle ultime ore, dopo Google, anche Apple e Amazon hanno deciso di rimuovere dai loro server l’app popolare tra i conservatori e l’estrema destra americana.
Rimuovendo domenica sera Parler dal suo servizio di cloud hosting Amazon Web Services, Amazon ha eliminato il social dall’Internet pubblica.
Le mosse delle big tech giungono dopo post su Parler che incoraggiavano la violenza con il caos culminato nell’assalto di mercoledì al Campidoglio a Washington.
“Parler non ha adottato misure adeguate per affrontare la proliferazione di queste minacce alla sicurezza delle persone”, ha comunicato Amazon, giustificando così la rimozione del social dal suo server Aws.
Gli stop decisi dai social sollevano anche, secondo molti esperti, dubbi sulla sostenibilità del loro modello di business per una democrazia funzionante e sui politici ormai troppo dipendenti dai social.
La decisione infiamma il dibattito già acceso sul ruolo e sul crescente peso dei social media dopo che Twitter e Facebook hanno sospeso l’account di Donald Trump, spaccando l’opinione pubblica fra chi parla di censura e chi di decisione tardiva.
Eppure negli Stati Uniti le piattaforme digitali si sono sempre trincerate dietro la sezione 230 del Communications Decency Act, la norma del 1996 che protegge le aziende tecnologiche dalla responsabilità sui contenuti pubblicati dagli utenti, garantendo la libertà di espressione sul web.
Tutti i dettagli.
PARLER RIMOSSO DAL WEB
Apple, Amazon e Google hanno reso inutilizzabile Parler, il social network simile a Twitter popolare tra i sostenitori di Donald Trump. L’accusa è quella di non aver preso le misure necessarie per affrontare le minacce di odio e violenza in seguito all’assalto al Congresso.
Secondo il sito specializzato nel monitoraggio di internet Down for Everyone Or Just for Me, Parler è risultata disattivato da poco dopo la mezzanotte ora statunitense. Questo significa che i suoi proprietari non sono riusciti a trovare nessun altro fornitore del servizio.
COSA HA FATTO GOOGLE
Quando ha ritirato Parler dal Play Store venerdì scorso, Google ha affermato che sebbene un dibattito ragionevole sulla politica dei contenuti fosse possibile e che possa essere difficile per le app rimuovere immediatamente i contenuti violanti, “per distribuire un’app tramite Google Play, richiediamo che le app implementino forte moderazione per contenuti eclatanti”.
SEGUITA DA APPLE
Poco dopo anche Apple ha sospeso Parler dal suo app store “fino a quando la rete continuerà a diffondere post che incitano alla violenza”.
Il produttore di iPhone ha comunicato a Parler la sua decisione in un messaggio in cui dichiara che il social ha violato i termini dell’app store dell’azienda di Cupertino.
“I processi che Parler ha messo in atto per moderare o prevenire la diffusione di contenuti pericolosi e illegali si sono rivelati insufficienti. Nello specifico, abbiamo continuato a trovare minacce dirette di violenza e appelli per incitare all’azione illegale”.
“Qui non c’è posto sulla nostra piattaforma per minacce di violenza e attività illegali”, ha giustificato così Apple la sua mossa.
E DA AMAZON
Insieme a Google e Apple, anche Amazon aveva avvertito Parler che avrebbe perso l’accesso ai suoi server se non fosse stata capace di moderare i messaggi dei suoi utenti. Amazon aveva trovato 98 post di incoraggiamento alla violenza sulla rete social.
Amazon ha comunicato a Parler la sua decisione sabato scorso, in una lettera al chief policy officer Amy Peikoff.
“Abbiamo assistito a un costante aumento di questi contenuti violenti sul tuo sito web, il che viola i nostri termini”, ha scritto il colosso tecnologico guidato da Jeff Bezos.
Amazon Web Service (Aws) “non può fornire servizi a un cliente che non è in grado di identificare e rimuovere efficacemente i contenuti che incoraggiano o incitano alla violenza contro gli altri”, afferma la lettera a Peikoff. Aggiungendo che Parler “rappresenta un rischio molto reale per la sicurezza pubblica”.
COSA SIGNIFICA LA RIMOZIONE DI PARLER DAL SERVER AWS
La mossa di Amazon su Parler è importante perché i servizi Web di Amazon sono più simili a un fornitore di servizi che a un’emittente, sottolinea Axios.
IL SOCIAL SPARISCE DAL WEB
La spazzata minaccia di escludere Parler da tutto il suo pubblico. Non solo i nuovi utenti non saranno in grado di trovare Parler nei due più grandi app store di Internet, ma anche quelli che hanno già scaricato l’app non potranno utilizzarla perché non sarà in grado di comunicare con i server di Parler su AWS.
COS’È PARLER
Lanciata nel 2018, Parler è un social network simile a Twitter. Si possono infatti pubblicare post fino a mille caratteri, inserire “like” e condividere post altri con i propri follower.
Autoproclamatasi il social della libertà di parola ed espressione, la società ha dichiarato che Parler si basa su algoritmi imparziali e non vende né condivide i dati degli utenti.
Le politiche di moderazione meno rigide di Parler facevano parte del suo fascino per molti utenti.
Il sito ha visto aumentare il numero degli utenti negli ultimi mesi, poiché Twitter e Facebook hanno rafforzato le loro politiche di moderazione, in particolare sulle informazioni sulle elezioni e sul coronavirus.
Ma la mancanza di moderazione dei contenuti è proprio il motivo per cui le big tech Google, Apple e Amazon hanno sospeso i loro servizi.
IL SOCIAL SIMIL-TWITTER CHE PIACE ALLA DESTRA
Parler si è rivelata particolarmente popolare tra i sostenitori del presidente degli Stati Uniti e la destra conservatrice. Ma Donald Trump non è un utente della piattaforma.
I conservatori hanno spesso accusato Twitter e Facebook di censurare ingiustamente le loro opinioni.
Il senatore repubblicano del Texas, Ted Cruz, vanta 4,9 milioni di follower, mentre il conduttore di Fox News, Sean Hannity, ne ha circa sette milioni.
Praticando una moderazione dei contenuti più flessibile, Parler ha consentito ai post che includono teorie del complotto, minacce e incitamento all’odio, tra le altre cose, di rimanere sulla piattaforma.
IL COMMENTO DEL CEO JOHN MATZE
“Big Tech vuole uccidere la concorrenza, e ha messo in atto uno sforzo coordinato per rimuovere la libertà di parola da internet”, ha commentato sabato il ceo di Parler, Joh Matze.
Nel suo post il ceo di Parler afferma che Amazon, Google e Apple “hanno collaborato per cercare di garantire che non abbiano concorrenza”, aggiungendo” NON vinceranno! Siamo l’ultima speranza del mondo per la libertà di parola e di informazione libera”.
COSA HANNO FATTO TWITTER E FACEBOOK
Nel mettere a tacere il presidente Trump, Twitter e Facebook hanno mostrato i muscoli facendo “vedere chi ha il potere nella società digitale”, osserva il New York Times ricordando come i nomi di Mark Zuckerberg e Jack Dorsey non sono mai apparsi in nessuna elezione eppure i due manager, “responsabili solo davanti ai loro consigli di amministrazione e ai loro azionisti”, hanno un “enorme potere”.
DORSEY E ZUCKERBERG EDITORI DELLE PROPRIE PIATTAFORME?
Senza dimenticare che a metà ottobre, sia Facebook che Twitter hanno censurato un reportage del New York Post sul figlio del candidato alla presidenza Joe Biden, ovvero Robert Hunter Biden. Tutto ciò in piena campagna elettorale per le presidenziali statunitensi 2020, perché le due piattaforme dubitavano delle fonti del tabloid.
La scelta di Facebook e Twitter suona dunque una scelta puramente editoriale. “E questo non è affatto banale. Perché se le piattaforme social fanno delle deliberate scelte editoriali, diventano altro rispetto a quello che sono al momento” aveva scritto il professore di Scienza Politica Luigi Curini.
VIOLAZIONE DEL PRIMO EMENDAMENTO?
Secondo alcuni costituzionalisti, chi come i repubblicani parla di violazione del primo emendamento per Twitter e Facebook — ma anche per Apple, Amazon e Google — sbaglia. L’oscuramento di Trump e lo stop di Parler sono infatti perfettamente legali perché il Primo Emendamento vieta la censura al governo e non si applica alle decisioni di società private.
UN DIBATTITO COMPLICATO
Nonostante questo il dibattito è complicato. Pur ritenendo corrette le decisioni della Silicon Valley, molti si interrogano sul potere che ha accumulato e che le consente di rimuovere chiunque dalle loro piattaforme, divenute indispensabili per miliardi di persone. “Il presidente può rivolgersi al suo ufficio stampa o a Fox se vuole comunicare con il pubblico. Molti altri, quali gli attivisti afroamericani o Lgbtq bloccati dai social come Trump, non hanno questo lusso”, denuncia l’American Civil Liberties Union.
COSA PENSA L’ALTO RAPPRESENTANTE UE
Nella discussione si è inserito, dall’altra parte dell’Oceano, anche l’Alto rappresentante Ue Josep Borrell. A suo parere “occorre poter regolamentare meglio i contenuti dei social network, rispettando scrupolosamente la libertà di espressione”. Tuttavia “non è possibile che questa regolamentazione sia attuata principalmente secondo regole e procedure stabilite da soggetti privati”.
LA QUESTIONE DELLA SEZIONE 230
Il primo nodo da sciogliere è quello normativo sulla Section 230 del Communications Decency. La norma garantisce l’immunità alle piattaforme social, sollevandole da ogni responsabilità sui contenuti pubblicati dagli utenti.
Recita: “Nessun fornitore e nessun utilizzatore di servizi Internet può essere considerato responsabile, come editore o autore, di una qualsiasi informazione fornita da terzi”.
E allora perché queste piattaforme (da Twitter a Facebook ma anche Apple e Google) si stanno comportando come editori delle notizie pubblicate sui loro siti, arrivando ad applicare perfino la censura?
La resa dei conti sulla libertà di parola delle Big Tech è iniziata.