Mercoledì si è manifestato quello che taluni paventavano da tempo: una vera e propria transizione di fase (prendendo a prestito un termine della fisica che impariamo fin da piccoli) un po’ come il passaggio dalla forma solida a quella liquida, nel rapporto tra giganti del web e politica. Un cambiamento quindi qualitativo fondamentale, proprio perché innegabile, nel sostanziale silenzio assordante di quei molti paladini della libertà che hanno passato gli ultimi anni a scrivere dei pericoli per una democrazia della interferenza dei social media.
Ma si sa, occhio analitico non vede, cuore ideologico non soffre. Cosa è successo? È accaduto che sia Facebook che Twitter hanno censurato un reportage del New York Post (il quarto giornale per diffusione negli Stati Uniti, insomma una delle colonne della carta stampata americana) sul figlio del candidato alla presidenza Joe Biden, ovvero Robert Hunter Biden. A seguito di alcune email trapelate («leaked» in americano) e ottenute dal New York Post, Hunter Biden avrebbe presentato a suo padre un importante dirigente di Burisma, la società cipriota con interessi in Ucraina e per cui Hunter Biden ricopriva il ruolo di consigliere di amministrazione, un anno prima che Joe Biden, allora vice-presidente, facesse pressione sul governo ucraino per licenziare un pubblico ministero che stava indagando proprio su quella compagnia.
Se confermate, tale scambio di email dimostrerebbe che Joe Biden ha mentito quando più volte negò con forza di aver parlato con il figlio dei suoi affari all’estero (per gli smemorati: Donald Trump ha corso il rischio di impeachment sull’UkrainaGate proprio perché ha fatto a sua volta pressioni sul governo ucraino per investigare con più forza sul coinvolgimento di Biden padre e figlio in questa storia).
Ma torniamo ai giganti del web: a seguito della pubblicazione di tale articolo, Facebook ha deciso di limitare la sua diffusione sulla sua piattaforma, giustificando la cosa sulla base della necessità di far passare prima tale articolo al vaglio di fact-checker «indipendenti» (qualunque cosa questo significhi). Twitter invece ha fatto ben di peggio. Gli utenti del microblog dell’uccellino non hanno infatti proprio potuto condividere tale articolo. Insomma lo ha censurato. La lunga giustificazione apparsa poi su Twitter rinvia fondamentalmente al fatto che la policy, stabilita nel 2018, di Twitter vieta l’utilizzo del suo servizio per distribuire contenuti ottenuti senza autorizzazione (come lo scambio di email di cui sopra).
Il che fa sorridere per almeno tre ordini di ragioni. Primo, buona parte della narrazione di media importanti contro la presidenza Trump in questi 4 anni si basa su articoli che si basano su fonti «leaked» o comunque ottenuti senza formale autorizzazione. Per fare un recente esempio, il reportage del New York Times sulla dichiarazione dei redditi di Trump è stato ottenuto usando per l’appunto fonti «illegali». E Twitter non si è certo sognata di censurare tale articolo. Ergo, perché all’improvviso la policy stabilita nel 2018 diventa di attualità?
In secondo luogo, il giorno dopo questa decisione, il servizio di informazione della stessa Twitter mette come prima notizia una smentita dell’articolo del New York Post, citando a questo riguardo un articolo del Washington Post che scagionerebbe Joe Biden dalle accuse. Insomma, alcuni giornali sembrerebbero essere veri e propri oracoli della «verità» per Twitter. A differenza di altri. Infine, la scelta di Twitter si somma a quelle perseguite in questi ultimi mesi nei confronti dell’account di Trump, tra tweet cancellati o comunque segnalati come «non veritieri», una attenzione non certo simmetrica, dato che i tweet di importanti politici e leader religiosi del mondo arabo che si augurano la distruzione di Israele, per citare giusto un esempio, non hanno subito alcuna sorte simile.
Tralasciamo qua i possibili impatti dell’articolo del New York Post sul voto di novembre (che potrebbero essere non banali: la narrazione ad esempio di Trump di essere «vittima» dei poteri forti ne esce inevitabilmente rafforzata; anche perché la censura, più velata in un caso e più evidente nell’altro, di Facebook e Twitter non ha fatto altro che portare ancora più pubblicità all’articolo). C’è invece la questione (ben più importante, perchè destinata a rimanere nei prossimi anni) delle piattaforme: la scelta di Facebook e Twitter è una scelta che pare puramente editoriale. E questo non è affatto banale. Perché se le piattaforme social fanno delle deliberate scelte editoriali, diventano altro rispetto a quello che sono al momento.
Da un lato perdono il loro status attuale di Internet Service Provider, con inevitabile aggravi di regolamentazione pubblica (e di pagamento di tasse). Dall’altro, questo cambiamento deve essere ben chiaro agli utenti di tali piattaforme che hanno ceduto i loro dati alle stesse che ora mostrano di avere certe preferenze ideologiche che influenzano cosa gli utenti delle stesse piattaforme possono leggere e condividere. Oggi è stato su Biden, domani chissà? Questo, ben più di qualunque dibattito sulle supposte «fake news», è ciò che dovrebbe davvero spaventarci. Per davvero.