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Gas

Perché l’Europa e la Russia sono legate sul gas

L’intervento di Salvatore Santangelo.

 

Proviamo a scorrere una qualsiasi carta geo-economica del Continente eurasiatico, e subito appare evidente questo paradosso: la parte occidentale, la più industrializzata, è per lo più priva di idrocarburi, mentre lo spazio post-sovietico (e in particolare la Siberia) possiede immensi giacimenti di gas e petrolio (ma anche di uranio, oro, diamanti e terre rare).

Questa situazione dimostra, almeno sul fronte energetico e delle materie prime, l’interconnessione tra le due distinte parti dell’”Isola Mondo” (dalla nota definizione di Halford Mackinder) e quanto la Ue, e in particolare il suo motore industriale – la Germania – sia (in un tempo in cui stiamo dismettendo – più o meno radicalmente – il carbone, alla luce del ridimensionamento delle ambizioni nucleari e nonostante la volontà di adottare un’agenda energetica coerente con la “Transizione energetica”) dipendente dal gas e dal petrolio russo (insieme alla Germania, l’Italia è certamente uno degli altri Paesi più esposti).

Tenendo presente che – secondo le stime più autorevoli – almeno fino al 2050, il gas naturale continuerà a far fronte a circa il 25 per cento del consumo energetico dei Paesi della Ue, mentre il costo delle importazioni di idrocarburi salirà – già a partire dal 2030 – a circa 500 miliardi di euro (stime pre Pandemia e pre Invasione).
Prima della “guerra di Putin” – per l’annuale “Energy Outlook” della BP – la Federazione russa sarebbe rimasta la più grande esportatrice al mondo di energia (gas+petrolio) fino al 2035: in particolare, la sua produzione di gas è – dopo quella gli Stati Uniti – la più importante al mondo e potrebbe arrivare a sfiorare – proprio nel 2035 – i 75 miliardi di piedi cubi giornalieri.

Il gas non è una “merce” qualsiasi: possiede una serie di caratteristiche peculiari che conferiscono a questo mercato una spiccata connotazione.

È certamente una risorsa rara, anche se questo è un concetto relativo; in alcune zone del pianeta è infatti presente in abbondanza, e le nuove tecnologie permettono l’esplorazione e lo sfruttamento di nuovi giacimenti o l’applicazione di modalità totalmente rivoluzionarie: pensiamo al gas di scisti negli Usa, o all’estrazione a latitudini (Norvegia e Mare del Nord) e a profondità prima impensabili.

L’aumento dell’offerta e la contrazione della domanda, dovuta al rallentamento dell’economia in conseguenza di conflitti o a crisi economiche o pandemiche, impongono ai governi l’uso di strumenti che potremmo definire “politici” per sostenere la propria produzione.

E quanto sia centrale questa dimensione nel mercato degli idrocarburi lo avevamo potuto valutare già a seguito della prima crisi in Ucraina (2014), dell’applicazione dei primi round di sanzioni nei confronti di Mosca e della manipolazione al ribasso del prezzo del greggio da parte dei Sauditi per stritolare l’economia russa in questa doppia morsa (ma – 8 anni fa – anche per ridimensionare sul nascere le ambizioni della nascente industria estrattiva americana che utilizza la tecnica del “fracking”).

Di fatto – nonostante questa forte pressione – Mosca è riuscita a reggere.

In questa fase, le posizioni rispetto al Conflitto in atto – pur con tutte le dovute sfumature e i distinguo del caso – vedono da un lato della barricata quasi tutti i Brics (manca all’appello il Brasile di Bolsonaro, ma vedremo cosa accadrà con le prossime elezioni e con la probabile vittoria di Lula Da Silva) e il riproporsi degli stessi schieramenti della Cop24 (sono neutrali o simpatetici con la Russia i Paesi energivori in piena transizione industriale – Cina e India – e – a eccezione del Qatar – tutti i produttori di fonti fossili).

Fatta questa doverosa premessa, torniamo ad analizzare alcune caratteristiche del gas come commodity.

Il gas naturale possiede ulteriori caratteristiche che lo rendono diverso dalle altre fonti di energia: a causa delle sue proprietà fisiche, che richiedono sistemi speciali di trasporto, la logistica è particolarmente costosa.

Attualmente ci sono due metodologie di trasporto: il gas naturale può essere convogliato nelle condotte, oppure portato allo stato liquido e stoccato su navi speciali (dove il carico deve essere tenuto costantemente a -165 gradi sotto lo zero).

In quest’ultimo caso, la logistica del gas liquido richiede la predisposizione di impianti speciali per la liquefazione e la successiva delicata ri-gassificazione nei porti di partenza e di arrivo, e una flotta di navi ad hoc.

L’Urss prima, e la Federazione russa poi, per rifornire l’Europa occidentale, hanno utilizzato un poderoso sistema di gasdotti: nel 1967 è diventato pienamente operativo Bratstvo (Fratellanza) – in grado di trasportare oltre 100 miliardi di metri cubi di gas all’anno – che resta tuttora il principale vettore verso Germania, Austria e Italia con un tracciato che attraversa l’Ucraina appunto e la Slovacchia.

A questa prima arteria si è aggiunta negli anni una fitta rete di gasdotti (oggi controllati da Gazprom), che si estendono per 160.400 chilometri (quattro volte la circonferenza equatoriale) e si ramificano dall’isola di Sakhalin fino ai confini della Germania.

E poi il controverso Nord Stream è il suo raddoppio.

Nell’equazione energetica entrano in gioco fondamentalmente tre distinte variabili.

Innanzitutto, le speculari paure dei Paesi consumatori e di quelli venditori. I primi, spinti dalla preoccupazione dell’eccessivo affidamento a un solo fornitore, tendono (o dovrebbero tendere) a diversificare le fonti di approvvigionamento; i secondi, nel momento in cui pianificano l’investimento di ingenti risorse per costruire poderose infrastrutture, devono essere sicuri che la domanda rimanga costante nel tempo per remunerare i capitali impiegati. Come sempre: senza un compratore non c’è un venditore. Per questo motivo, i contratti di fornitura e di acquisto del gas sono in genere di durata almeno venticinquennale e comprendono una clausola “take or pay”: l’acquirente è tenuto a pagare (salvo rare eccezioni in dollari) anche la parte che non viene eventualmente consumata.

In secondo luogo, il ruolo dei Paesi attraversati dalle pipeline che, permettendo l’attraversamento, puntano a massimizzare il vantaggio della loro posizione strategica, cercando di ottenere tasse sul transito e un prezzo scontato sul gas; e lo fanno con una continua contrattazione che inizia nella fase di progettazione e viene spesso rinegoziata anche in quella di esercizio. Spesso assistiamo a vere e proprie forme di ricatto (se non a un costante saccheggio del gas trasportato).

Infine, il contesto internazionale. Fin dalla fine degli anni settanta, il sistema delle pipe-line dell’Unione sovietica divenne oggetto di un’intensa pressione diplomatica, politica ed economica da parte dagli Usa.

Nel 1983, entrava pienamente in funzione il nuovo gasdotto Urengoy-Pomary-Uzhgorod, costruito per connettere i giacimenti scoperti nella Siberia nord-occidentale con i mercati dell’Europa centrale.

Le pipeline – come tutte le grandi infrastrutture strategiche transnazionali – hanno una fortissima connotazione politica già nell’iniziale fase di pianificazione e progettazione, ma quando vengono effettivamente messe in funzione rappresentano l’equivalente geopolitico di un matrimonio, con la non trascurabile differenza che il divorzio, se non in condizioni davvero straordinarie, non è praticabile.

Vedremo se in questo senso si realizzerà l’auspicio del sottosegretario al Dipartimento di Stato USA – Victoria Nuland – che durante un’audizione al Senato ha affermato come il raddoppio del gasdotto NordStream che lega (o legava?) ancor più Germania e Russia (e pensato, forse ingenuamente, per mantenere questo vitale rapporto anche di fronte a un terremoto geopolitico, ma non certo della magnitudo di una guerra d’aggressione): sia “morto e sepolto” e – ha aggiunto – “si tratta di un grosso pezzo di metallo in fondo al mare”.

Qualche anno fa, Roger W. Robinson Jr., già direttore per gli affari economici internazionali del National security council (Nsc) nel triennio 1982-1985, ha rivelato come l’Amministrazione guidata da Ronald Reagan – spaventata dai possibili effetti dell’integrazione energetica sulla tenuta del suo sistema di alleanze in Europa, e per minare il potere militare ed economico dell’Urss – volle dar vita a una task force denominata “Interagency Group on International Economic Policy”: Ig-Iep (“Gruppo di coordinamento inter-agenzie per la politica economica internazionale”).

Innanzitutto, gli analisti iniziarono a monitorare i flussi di valuta pregiata verso l’Urss; verificarono così che l’80 per cento del fatturato estero proveniva da tre fonti principali, e cioè dalla vendita di armi e tecnologia militare, di oro e di idrocarburi (questi ultimi, da soli, generavano circa il 66 per cento del totale).

Queste conclusioni (per la verità abbastanza scontate) spinsero l’Amministrazione repubblicana a colpire proprio le forniture di petrolio e gas verso l’Europa occidentale, per limitare, attraverso la drastica riduzione dei proventi in valuta estera, le opzioni politiche dell’avversario comunista.

Per contrastare l’implementazione del sistema dei gasdotti dalla Siberia all’Europa occidentale, gli Usa misero in campo una serie di azioni per minarne la redditività (e conseguentemente la possibilità di rientrare dei massicci investimenti) abbassando, contemporaneamente; grazie all’azione dei sauditi, il prezzo del petrolio che – nell’arco di dieci anni – fu compresso fino a un minimo di 9-10 dollari al barile.

Nel 1986 Ryad, in soli 12 mesi, aveva portato la sua produzione da due milioni di barili al giorno fino a sei.

La strategia statunitense (denominata “Triade strategica commerciale”), declinata a più livelli, puntava a interdire ai Sovietici l’accesso al mercato europeo del gas naturale, al mercato finanziario internazionale e alle tecnologie potenzialmente dual use.

Non potendo contrastare la costruzione di un gasdotto che attraversava solo il territorio di Paesi comunisti (almeno fino alle diramazioni finali ai confini dell’Europa occidentale), gli Usa diedero vita a una serie di iniziative, tra cui le più significative furono l’applicazione di un embargo sulle tecnologie chiave nel settore estrattivo (che ha lasciato spazio per poche eccezioni), di cui detenevano la proprietà intellettuale e produttiva in modo esclusivo, e una forte condizionamento delle scelte dei partner europei in campo energetico.

Le compagnie europee che provarono a fornire all’Urss attrezzature o tecnologie, prodotte su licenza Usa, furono oggetto di una spietata “guerra commerciale” che prevedeva – in base a un principio di extraterritorialità e in modo assolutamente irrituale – l’applicazione della normativa statunitense anche nei Paesi europei.

Questo approccio venne utilizzato proprio durante la realizzazione del nuovo gasdotto siberiano: se un’impresa europea avesse tentato di aggirare queste rigide restrizioni, qualora individuata, si sarebbe vistatotalmente preclusa la possibilità di operare sul mercato statunitense.

Furono cinque le compagnie europee a rimanere incagliate nelle strette maglie di questo meccanismo di controllo. Tre di queste compagnie fallirono proprio a causa dell’applicazione delle sanzioni.

L’Eni – indirettamente coinvolta attraverso una delle sue controllate – fu tra le due che all’epoca si salvarono.

Sotto la pressione americana, l’Agenzia internazionale per l’energia – in vista dell’importante vertice economico di Williamsburg (maggio 1983) – predispose uno schema di accordo complessivo sull’approvvigionamento di gas, in cui si esplicitava l’esigenza dell’Europa di non dipendere da un solo fornitore (il riferimento era chiaramente all’Urss).

In tal senso, nel documento si sottolineava la necessità di accelerare lo sfruttamento di “Troll”, un ingente giacimento di gas scoperto in Norvegia.

I Paesi dell’allora Cee – acquistando a un prezzo maggiorato le forniture del gas norvegese – avrebbero dovuto farsi carico – per evidenti ragioni geostrategiche – degli investimenti necessari per realizzare gli impianti di “gasificazione” fondamentali per rendere possibile questa alternativa.

Per inciso, questo schema in qualche modo ricorda il tentativo di triangolazione del “Huwei-Ban” sul 5G con il tentativo di coinvolgere la Svezia e la Finlandia (Eriksson e Nokia) come alternative più costose e – al momento – meno performanti di quella cinese.

L’esito di quella articolata strategia fu un ritardo di quasi tre anni sulla tabella di marcia per l’apertura della prima linea del gasdotto trans-siberiano e la cancellazione del suo previsto raddoppio, il che costò all’Urss mancati introiti nell’ordine di quindici miliardi di dollari all’anno (da aggiungersi alle perdite dovute al pesante ritardo accumulato).

L’amministrazione Reagan riteneva che questa azione avrebbe dato gli esiti sperati in un arco temporale compreso tra i 5 e i 10 anni.

Le sanzioni furono pienamente operative nel 1982; il 23 dicembre del 1991, solo due giorni prima della dissoluzione dell’Urss, Gorbaciov annunciò un default su ben 96 miliardi di dollari di debiti accumulati in valuta pregiata.

Come la Perestroika, che condusse al dissolvimento dell’Urss, appare legata al crollo dei prezzi del greggio negli anni ’80, così la crisi del 1998 (quando la Russia di Eltsin andò letteralmente fallita) è strettamente collegata alle vicende del mercato petrolifero, rappresentando l’inevitabile conclusione del regime di Eltsin e del saccheggio delle ricchezze del Paese da parte di alcuni “oligarchi”: la “transizione” della Russia toccava così il suo momento più drammatico e caotico, con la privatizzazione del suo immenso patrimonio accumulato, nel corso di appena un secolo, durante il tremendo sforzo per costruire la sua potenza industriale. Con la privatizzazione shock delle risorse petrolifere, Mosca aderiva in modo ortodosso e radicale ai canoni del capitalismo occidentale.

Quella guerra economica sostenuta da un’accorta pianificazione e da una efficace esecuzione portò – assieme alla strategia del PingPong che aveva dis-allineato Pechino da Mosca – alla vittoria nella “vecchia” Guerra Fredda; presto vedremo chi si è meglio preparato a combattere la “Nuova” proprio sul versante geoeconomico.

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