Gli Stati Uniti hanno già iniziato a scendere a compromessi sui pannelli solari cinesi?
Il dipartimento del Tesoro ha infatti spiegato che gli sviluppatori di progetti di energia solare potranno richiedere un sussidio governativo per gli impianti costruiti con prodotti americani, anche se i loro pannelli fotovoltaici sono formati da materiali provenienti dalla Cina.
IL COMPROMESSO
La nuova normativa per l’accesso al credito d’imposta rappresenta un compromesso tra le società statunitensi che installano i parchi solari, e che dunque dipendono dai pannelli economici importati dall’Asia per tenere bassi i costi dei progetti, e le imprese americane che fabbricano dispositivi fotovoltaici, che vorrebbero espandersi sul mercato nazionale e guardano alla concorrenza cinese come a una minaccia esistenziale.
GLI AIUTI DELL’INFLATION REDUCTION ACT ALLA MANIFATTURA AMERICANA
L’Inflation Reduction Act, una delle leggi più importanti firmate finora dal presidente Joe Biden, stanzia incentivi multimiliardari alla manifattura statunitense di tecnologie per le energie pulite (batterie, turbine eoliche, pannelli fotovoltaici e altro ancora) con lo scopo di contrastare il dominio della Cina su queste industrie. Dal momento dell’entrata in vigore, nell’agosto 2022, sono stati annunciati investimenti in fabbriche di dispositivi solari negli Stati Uniti per oltre 13 miliardi di dollari, stando ai calcoli della SEIA, un’associazione di categoria.
L’Inflation Reduction Act prevede un credito d’imposta del 30 per cento per gli impianti di energia rinnovabile come i parchi eolici e fotovoltaici, più un ulteriore credito del 10 per cento sul costo del progetto se vengono utilizzati materiali di produzione nazionale. Per accedere a quest’ultimo bonus tutti i prodotti a base di ferro o acciaio impiegati dovranno essere stati fusi negli Stati Uniti, ad esempio, e il 40 per cento del valore dei beni manifatturieri dovrà avere origine americana.
Per gli impianti di eolico offshore (in mare), il contenuto di origine nazionale deve rappresentare almeno il 20 per cento dei costi totali. Per l’eolico onshore (a terra) e per il solare, invece, la percentuale è del 40 per cento.
IL PROBLEMA DELLE CELLE SOLARI
Nel caso specifico dei progetti solari, il 40 per cento dei materiali presenti nei moduli fotovoltaici o negli inverter (sono dei dispositivi che servono a immettere in rete l’elettricità generata dai pannelli) deve essere stato fabbricato negli Stati Uniti. Significa, in sostanza, che le celle solari (quei dispositivi che, assemblati, formano i moduli) potranno essere di produzione straniera, purché la percentuale di contenuto nazionale sul costo del pannello finito venga soddisfatta dagli altri componenti.
Il punto, però, è che le celle solari rappresentano da sole il 30 per cento del costo di un pannello, e al momento negli Stati Uniti non esiste affatto una manifattura di celle al polisilicio, la tecnologie più diffusa. Senza contare poi che il 98 per cento della produzione globale di wafer, i componenti di base delle celle solari, si concentra in Cina.
C’è chi teme, insomma, che gli Stati Uniti si limiteranno ad assemblare pannelli fatti di materiali cinesi, senza riuscire a sviluppare davvero una filiera domestica e indipendente dalla loro rivale.