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Rinnovabili

Come l’America arruolerà l’India sui pannelli solari per fare la guerra alla Cina

L’America teme che la transizione verso le rinnovabili possa favorire la Cina. E punta sull’India per la produzione di nuove celle solari.

 

Il ministro dell’Energia americano, Dan Brouillette, ha dichiarato recentemente che l’India è “in una posizione perfetta per diventare una potenziale produttrice” di celle fotovoltaiche perovskitiche.

COSA SONO LE CELLE PEROVSKITICHE

Le celle fotovoltaiche sono quei dispositivi che compongono i pannelli e che permettono di convertire in elettricità l’energia della luce solare. Le celle perovskitiche si differenziano da quelle “classiche” (di solito al silicio) per l’utilizzo di un diverso materiale assorbente e per la maggiore efficienza ed economicità. Si tratta perciò di una delle tecnologie per il solare che ha attirato maggiore interesse, ma la sua affermazione a livello commerciale dipenderà sia dal miglioramento dei livelli di efficienza che dall’abbassamento dei costi di produzione.

COSA FANNO (E DICONO) GLI STATI UNITI

Gli Stati Uniti stanno conducendo delle ricerche sulle celle perovskitiche presso il Laboratorio nazionale per le energie rinnovabili, in Colorado.

Il ministro Brouillette, durante il suo intervento alla conferenza sull’energia CERAWeek, ha detto che si tratta di una “tecnologia che vogliamo condividere con l’India. Pensiamo che sia meglio che sia realizzata qui piuttosto che in altre parti del mondo”.

“Di recente, con questa pandemia”, ha proseguito Brouillette,“abbiamo visto che sono emersi dei problemi legati alle catene di approvvigionamento con paesi come la Cina. E in alcuni casi siamo diventati eccessivamente dipendenti da un solo paese”.

LA GEOPOLITICA DELLA TRANSIZIONE ENERGETICA

Joe Biden – mentre scriviamo, il candidato favorito a diventare il prossimo presidente degli Stati Uniti – ha già detto di volere “una transizione dall’industria petrolifera” e il raggiungimento della neutralità carbonica entro il 2050. Altri importanti emettitori di anidride carbonica, come la Cina (entro il 2060), il Giappone e la Corea del sud, hanno annunciato lo stesso.

A livello globale, la transizione energetica dalle fonti fossili (petrolio, gas naturale, carbone) alle fonti rinnovabili (eolico e solare) è dunque già in corso. Avrà importanti ripercussioni sul clima, sulle economie e sugli apparati industriali, ma avrà anche delle profonde conseguenze geopolitiche.

Il petrolio ha storicamente garantito una forte leva ai paesi produttori come l’Arabia Saudita; leva che andrà però via via indebolendosi con il progressivo distacco dagli idrocarburi. In un mondo che si va sempre più elettrificando – pensiamo ai trasporti: le auto elettriche, i camion ad idrogeno –, la transizione energetica comporterà un trasferimento di potenza geopolitica dai petrostati agli elettrostati: ovvero quelle nazioni che dominano la produzione di tecnologie e componenti per gli impianti eolici e solari, e quelle in grado di produrre ed esportare energia elettrica a zero emissioni.

Questo passaggio di influenza non sarà però immediato, come scriveva Jason Bordoff in un articolo su Foreign Policy: la domanda di greggio e il gas naturale non svanirà immediatamente e queste fonti continueranno ad essere presenti nel mix energetico ancora per diversi anni. Alcuni petrostati – quelli con i costi di produzione più bassi, innanzitutto – potrebbero riuscire a riorganizzarsi in tempo.

PERCHÉ L’AMERICA TEME LA CINA

A prescindere da chi occuperà la Casa Bianca, l’America vuole impedire l’ascesa della Cina a superpotenza egemone, in uno scontro che tocca praticamente ogni ambito – soprattutto la tecnologia e le connessioni – e che tocca anche l’energia.

Il timore di Washington è che la transizione verso le rinnovabili possa favorire l’espansione dell’influenza di Pechino del mondo, aumentandone così il capitale geopolitico. La Cina è infatti di gran lunga la maggiore produttrice di tecnologie per le rinnovabili, come i pannelli solari o le turbine eoliche. Produce oltre i due terzi delle batterie agli ioni di litio e ne domina l’intera filiera, a cominciare dai materiali di base. Pechino controlla anche il mercato delle terre rare, con una quota che si aggira intorno al 90 per cento. Per riuscire a raggiungere i target di decarbonizzazione, è probabile che un’azienda americana o europea finisca per rifornirsi dalla Cina.

COSA C’ENTRA L’INDIA

Riportando il discorso sull’energia solare, nel 2019 il 70 per cento della produzione globale di moduli fotovoltaici si è concentrata in Cina.

L’India ha intenzione di portare la propria capacità da fonti rinnovabili a 175 gigawatt entro il 2022, puntando principalmente sul solare. Nuova Delhi dipende però fortemente – per oltre l’80 per cento – dalle importazioni di celle e moduli fotovoltaici dalla Cina. Vorrebbe potenziare la produzione domestica, ma sta incontrando delle difficoltà.

Non è un caso che il ministro dell’Energia Brouillette abbia detto di voler condividere con l’India i risultati delle ricerche sulle celle perovskitiche, né che Washington abbia interesse a fare del paese un centro per la manifattura di questi dispositivi.

Ultimamente gli Stati Uniti stanno spingendo per rafforzare i rapporti strategici con l’India e per la creazione di un’esplicita alleanza anti-cinese che unisca altre potenze regionali (come il Giappone) e altre nazioni dell’area (come quelle del Sud-est asiatico). Il piano americano non sta avendo successo. Se è vero che ci sono tensioni e timori per la crescita dell’assertività cinese in Asia, e che esiste un interesse a ridurre la dipendenza dal Dragone, né Nuova Delhi né Tokyo né i paesi ASEAN vogliono schierarsi contro Pechino, che resta un importante partner commerciale.

L’India però – che confina direttamente con la Cina e che vi si è anche scontrata nella regione del Ladakh – si sta comunque avvicinando all’America sulla sicurezza. Recentemente le due nazioni hanno firmato un accordo militare per la condivisione di dati satellitari sensibili.

Dal 2007 le aziende americane hanno venduto all’India armi per oltre 21 miliardi di dollari.

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