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Petrolio

Dossier Siria, come pesano gas e petrolio

L’analisi di Raffaele Perfetto Per comprendere cosa sta accedendo e cosa potenzialmente accadrà in Siria non possiamo trascurare il fattore energetico. Nel 2016 la rivista americana Politico ha pubblicato un articolo di Robert F. Kennedy Jr. (figlio di Bob) sulla storia geopolitica del Medioriente fino alla guerra in Siria. In un passaggio importante viene introdotto…

Per comprendere cosa sta accedendo e cosa potenzialmente accadrà in Siria non possiamo trascurare il fattore energetico.

Nel 2016 la rivista americana Politico ha pubblicato un articolo di Robert F. Kennedy Jr. (figlio di Bob) sulla storia geopolitica del Medioriente fino alla guerra in Siria. In un passaggio importante viene introdotto come nasce la questione siriana: un gasdotto che sarebbe dovuto partire dal Qatar per arrivare fino in Europa. Mille e cinquecento chilometri di linea attraversando Arabia Saudita, Giordania, Siria e Turchia.

Stiamo parlando del più grande giacimento di gas al mondo diviso tra Iran e Qatar noto come South Pars (lato Iran) / North Dome (lato Qatar).

A quanto pare nel 2009 Assad avrebbe rifiutato questo gasdotto proposto dal Qatar (e company) proponendone un altro (benedetto dalla Russia) il quale sarebbe dovuto partire dalla parte iraniana del giacimento di gas in questione, attraversare la Siria fino a raggiungere i porti del Libano.

Il secondo gasdotto avrebbe reso l’Iran sciita, non il Qatar sunnita, il principale fornitore del mercato energetico europeo.

Possibili gasdotti verso Europa da Oilprice.net

La storia che ritorna

Sono circa cento anni che il Medio Oriente è un sorvegliato speciale. Con la conversione della marina inglese da carbone a petrolio (fortemente voluta da Churchill), la Prima Guerra Mondiale portò alla luce il problema delle forniture di greggio. Gli accordi di Sykes-Picot (1916) e quelli della Red Line per i giacimenti petroliferi del 1928 suddivisero l’area tra influenza inglese e francese. La Siria -e il Libano- entrarono sotto quella francese.

È in questo momento storico che si inseriscono la Dichiarazione di Balfour (1917) per lo sviluppo dello stato di Israele e, tre anni dopo, il Trattato di Sevres (fine della Grande Guerra) tra le forze alleate e l’allora impero ottomano. In questo trattato, nella sezione terza, art. 62-64, per la prima volta si menziona il popolo curdo e la sua possibile autonomia governativa.

Dopo questa necessaria parentesi storica, può essere utile un’analisi delle attuali forze in campo.

Oleodotto da Iraq a Turchia da The Economist

 

Cosa vorrebbe la Turchia?

L’ultima offensiva militare Turca nella regione settentrionale della Siria, il Rojava (anche Kurdistan siriano), può avere diverse chiavi di lettura. Una prima potrebbe essere quella di un messaggio rivolto alle forze curde interne (PKK). Un’altra possibile interpretazione è che si tratti di un’azione volta a delimitare bene l’area di influenza dove passa l’importantissimo oleodotto che porta l’olio iracheno (curdo) fino al terminale di Ceyhan in Turchia (vedi fig.2).

Erdogan in equilibrio tra russi e americani, da un lato firma accordi per la realizzazione della prima centrale nucleare (tecnologia russa e del valore di 20 miliardi di dollari) ad Akkuyu (East della Turchia) e si lascia fotografare con il Presidente Putin e Rohan; dall’altro assume una posizione <<pro Occidentale>> quando USA, Francia e Inghilterra fanno partire i loro missili a colpire postazioni siriane dopo il disastro umanitario di Duma.

Tralasciamo l’aspetto militare e le varie accuse reciproche rivoltesi tra i due fronti (pro e anti Assad) e curiamo il dettaglio energetico. In un certo senso l’accordo della prima centrale nucleare di Akkuyu potrebbe essere stato un contro scambio tra Turchia e Russia in cambio della rinuncia (temporanea o definitiva) alla realizzazione del gasdotto che avrebbe dovuto portare il gas curdo iracheno verso Ceyhan. Ricordiamo che Rosneft prima del referendum curdo/iracheno di ottobre si era proposta come supporto finanziario al progetto.

Uno studio del 2016 del think thank inglese OIES indicava una potenzialità del Kurdistan iracheno di esportazione di gas verso il territorio turco di circa 10 miliardi di metri cubi (bcm) annui. Quasi pari a quanto previsto dalla fornitura in arrivo da Azerbaijan attraverso il Corridoio Sud (in costruzione).

Quindi se il gasdotto curdo/iracheno verso la Turchia, finanziato da Rosneft, saltasse, come possibile contropartita la centrale nucleare di Akkuyu calzerebbe a pennello. Qualcuno potrebbe obiettare che magari la centrale di Akkuyu potrebbe anche essere la contropartita ad un’eventuale rinuncia ai sistemi missilistici S-400 che i Russi propongono e che tanto fanno innervosire gli americani e gli alleati Nato. La Turchia è (ancora per ora) un membro Nato; il tempo renderà forse più chiaro questi aspetti.

Cosa vorrebbe la Russia?

Come abbiamo premesso, il gasdotto del Qatar non era il massimo per il Cremlino che vedeva minacciato la sua fetta di mercato europeo. Per un momento abbandoniamo questa ipotesi e concentriamoci su un altro aspetto. Probabilmente tenere in pedi lo stato Siriano, per la Russia rientra in un discorso esistenziale in un’ottica sovranista e in chiave antiglobalista. In un certo senso Putin è entrato nella storia a contribuire a chiudere (o rimandare) il capitolo delle Rivoluzioni Arancioni e Primavere Arabe aprendo quella degli Autunni Liberali. Ricordiamo che la Russia sta vivendo un momento esistenziale delicato: se l’Ucraina entra nella Nato, si trova a poche centinaia di Km dei suoi confini truppe nemiche. È noto che ciò che ha sempre protetto la Russia nei secoli da “invasioni varie” è stata la sua “profondità” cioè le lunghe distanze.

Ma con l’intervento in Siria, la Russia entra nel Mediterraneo Orientale: il suo supporto al governo di Assad le garantisce la base del Tartus (e sovranità su essa) per 49 anni dal 2017 e quindi una presenza di fatto della forza militare navale russa nel mediterraneo orientale.

Ricordiamo che la Russia è il primo fornitore di gas dell’Europa e che le nuove scoperte di gas nel Mediterraneo potrebbero alla lunga controbilanciare il declino costante dei giacimenti del Mare del Nord. Da inquadrare in questo discorso anche le future potenziali scoperte di gas nel Libano, di cui prevediamo si parlerà in futuro.

Il marketing dei sistemi di armamento S-400 di cui si sente spesso parlare e delle tecnologie nucleari (le centrali di Rosatom) rappresenterebbero proprio dei segmenti usati per generare flussi di cassa in ingresso e per stabilire relazioni internazionali di lungo periodo. George Friedman, fondatore del think tank americano Stratfor, nel suo libro prevede che la Russia vedrà ridurre la sua popolazione, di circa 25 milioni al 2050. Questo fenomeno demografico, sebbene attenuato dopo il crollo dell’unione sovietica, ha avuto come effetto economico una maggiore spinta verso l’industria di petrolio e gas, la quale è un’industria poco labour-intensive (a differenza del manifatturiero). E avere meno forza lavoro impegnata nei settori produttivi crea disponibilità di uomini per le forze armate a protezione dei confini, che in questo periodo vanno particolarmente presidiati. Ecco quindi che la vendita di sistemi di protezione e tecnologie associate diventa una questione diciamo <<economica>>.

Cosa vorrebbero gli USA?

Tralasciando per un momento il principio di autodeterminazione dei popoli di cui gli US sono stati il baluardo, è difficile in breve descriverne la posizione. Sicuramente si sono dati questi obiettivi: ridurre l’influenza iraniana nella regione; aumentare la presenza (e i soldi) degli alleati nella regione (Francia e Arabia Saudita), “consentendo” una crescita Russa nella regione mediorientale. Una possibile contropartita alla crescita russa in Medioriente potrebbe essere la stabilità del prezzo del petrolio (leggasi accordo Russia e OPEC, cioè Arabia Saudita) importante per l’industria petrolifera americana. Ma anche per guadagnare leve su altri dossier: Korea del Nord, mare del Sud della Cina. Sì, perché mentre per gli USA il controllo del Medioriente è strategico, la riduzione della sua potenza nel Pacifico è esistenziale. Parliamo del controllo dei mari e del commercio.

Cosa vorrebbe Israele?

Più sicurezza. E questo si traduce secondo la sua prospettiva con una riduzione dell’influenza Iraniana. Interrompendo il cordone che parte dall’Iran, arriva in Siria e quindi in Libano fino al Golan, creando una zona cuscinetto a protezione da Hezbollah.

Ma anche uno pseudo alleato come il Kurdistan. Tradotto: non essere più l’unico –neo stato- in medio oriente.

Il Financial Times riportava che verso lo Stato di Israele nel 2015 erano destinati circa i 2/3 del petrolio del Kurdistan iracheno e con mercati finali in Italia, Francia, Grecia. Il commercio sarebbe avvenuto principalmente attraverso accordi -prepagati- condotti dalle compagnie di trading petrolifero: le principali Vitol e Trafigura (non confermato da queste).

Il petrolio prodotto dal nord dell’Iraq arrivava al terminale di Ceyhan in Turchia e da qui si muoveva nel Mediterraneo, raggiungendo i mercati finali.

Cosa vorrebbe l’Iran?

L’Iran di Kamenei ha una posizione abbastanza chiara, in occasione del referendum curdo iracheno disse: il voto <<rappresenta un tradimento verso l’intera regione e una minaccia per il suo stesso futuro>>. Ai tempi accusò gli Stati Uniti di voler creare un “nuovo caso Israele” in Medio Oriente. l’Iran di Rouhani vorrebbe invece evitare di essere colpita nuovamente dalle sanzioni. Ricordiamo che l’Iran prima delle sanzioni produceva circa 1 milione di barili al giorno in meno del livello attuale.

L’Iran vorrebbe continuare il processo di apertura garantendo agli investitori un ambiente stabile e sicuro e la deriva dell’accordo nucleare di maggio è dietro l’angolo.

Capacità balistica Iran da CSIS

Cosa vuole la Francia?

La Francia di Macron vorrebbe rispolverare il suo ruolo nella regione, ricordiamo che oltre la Siria abbiamo anche il Libano e qui le risorse di gas sono da sviluppare. Poi abbiamo il caso Cipro dove poche settimane fa la risposta del leader turco Erdogan non sono state molto conciliatorie. La partita del gas nel Mediterraneo orientale è troppo importante per restarne fuori.  Vorrebbe proteggere la sua industria energetica: in Iran Total è in pole position per sviluppare il gas iraniano del mega giacimento South Pars: quello che in Qatar si chiama North Dome per intenderci. Ovviamente tutto sanzioni permettendo. Vedremo se Macron è riuscito a convincere il Presidente Trump, ad oggi sembrerebbe di no

Cosa vuole l’Arabia Saudita?

I Sauditi giocano in chiave di contenimento iraniano, a ottobre il Re King Salman era stato a Mosca, la prima volta in assoluto. Ne è derivato un accordo importante che ha dato una fortissima stabilità e spinta al prezzo del petrolio. Ricordiamo che i sauditi sono in una fase di profonda apertura e rinnovamento. Se il Re Salman è stato a Mosca ad incontrare Putin, il principe ereditario Mohamed Bin Salman, cioè il futuro del regno, sembra guardi più ad Occidente. Il prezzo stabile è necessario per implementare tutte le riforme di rinnovamento necessarie e soprattutto per diversificare l’economia praticamente dipendente dal petrolio. Ma soprattutto per quotare in borsa la Saudi Aramco, il gioiello della corona saudita.

Serve un prezzo del barile adeguato: il Fondo Monetario Internazionale ha stimato nel 2016 che per i primi cinque produttori del Medio Oriente occorrono almeno 60 dollari al barile per bilanci e spesa pubblica (sicurezza, salute, educazione ecc..).

Le ultime aperture del principe ereditario Mohamed Bin Salman riguardo alla legittimità del popolo di Israele ad avere il suo stato, sono importanti segnali. Con Israele infatti i sauditi condividono un grande nemico (Iran) e un grande alleato (USA).

Cosa vuole il Kurdistan?

Dopo il Trattato di Sevres negli altri trattati (Losanna) non si parla più dei curdi. Devono passare circa 100 anni prima di riparlarne. I curdi combattono in Siria e in Iraq contro lo stato islamico e questa potrebbe essere la volta buona per conquistarsi il loro posto nella storia. Il 4 Ottobre 2018 i curdi iracheni fanno il referendum: punto nevralgico della questione è stata la città di Kirkuk, liberata dallo stato islamico grazie ai Peshmerga curdi. La città, centro primario per la produzione petrolifera irachena (15 % delle riserve e 40 % della produzione irachena sotto Saddam), fu perduta per mano del governo centrale nel 2014.

 

Vedremo come andrà a finire.  La storia si ripete. A volte.

 

L’autore ringrazia R. Melillo per il gentile supporto in fase di editing

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