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Tessile

Bruxelles mette nel mirino green il settore tessile?

Nuovi dogmi green di dubbia utilità per il settore tessile: l'Ue vuole limitare le sfilate di moda e imporre abiti usati. L'articolo di Tino Oldani per Italia Oggi

Pochi giorni fa la premier britannica, Liza Truss, ha respinto la proposta di una campagna di informazione governativa per convincere gli inglesi a risparmiare nel consumo di energia elettrica. «Non siamo uno Stato baby-sitter», ha sottolineato. «Di fronte alla crisi dell’energia, tutti conoscono il problema e sanno che per ridurre le bollette elettriche ciascuno dovrà fare la propria parte, come lo Stato sta facendo la sua con gli aiuti stanziati». Chapeau. Dire no allo Stato-babysitter fa parte della cultura liberale, l’opposto del dirigismo burocratico. Una linea dogmatica, quest’ultima, a cui sembra ispirarsi, e purtroppo non è una novità, l’ennesima direttiva green di dubbia utilità in arrivo da Bruxelles.

Dopo avere posto le basi per il suicidio dell’industria dell’auto, ora la Commissione Ue ha messo nel mirino il settore tessile e della moda, ritenuto colpevole di seguire processi produttivi che inquinano e comportano sprechi, quindi da mettere in riga con provvedimenti coercitivi di vario tipo, uno più bizzarro dell’altro: dalla riduzione delle sfilate di moda fino all’obbligo di produrre tessuti durevoli e riciclabili, così da incentivare il ricorso ai vestiti usati. Il tutto entro il 2030.

I dettagli della imminente direttiva sono stati anticipati da Vivian Loonela, capo della delegazione estone della Commissione Ue, in un’intervista al sito www.Err.ee. Si apprende così, dopo studi di cui è ignota la fonte, che attualmente nell’Ue ogni persona scarta in media circa 11 chilogrammi di tessuti l’anno, soprattutto chili di vestiti. «Uno spreco insostenibile, poiché i vestiti scartati sono stati indossati appena da sette a dieci volte». Per questo, spiega Loonela, la Commissione Ue sta sviluppando «una strategia tessile sostenibile, con l’obiettivo di dirottare il maggior numero possibile di articoli dagli scaffali dei negozi e dagli armadi delle persone verso programmi di riciclaggio e riutilizzo entro il 2030».

I punti chiave di questa strategia, tanto per cambiare, si basano su nuovi dogmi green che tutti, a cominciare dalle imprese tessili e della moda, dovranno rispettare, nonostante gli inevitabili costi economici e la dubbia utilità. Innanzitutto, «tutti i tessuti venduti sul mercato Ue dovranno essere durevoli e riciclabili. Gli indumenti dovranno essere realizzati con fibre eco-compatibili: ovvero fibre riciclate, prive di composti nocivi, e prodotte tenendo conto dei diritti ambientali e sociali».

Inevitabilmente ciò comporterà «una riduzione del flusso di catene di produzione tessile veloci nell’Ue», vale a dire la chiusura di stabilimenti e la perdita di migliaia di posti di lavoro, come si prevede per l’auto. Un prezzo da pagare, che Loonela giustifica così: «La moda veloce è meno costosa, ma i prodotti sono spesso di qualità inferiore e hanno un impatto ambientale maggiore». Tesi condivisa dal vicepresidente della Commissione Ue, Frans Timmermans, responsabile del Green Deal Ue, che alcuni mesi fa, anticipando la nuova direttiva sul tessile-moda, disse: «I vestiti che indossiamo dovrebbero durare più di tre lavaggi e dovrebbero essere anche riciclabili».

Per raggiungere tali obiettivi, precisa Loonela, la strategia della Commissione Ue punta su metodi degni dei piani quinquennali di stampo sovietico, come quello di «ridurre il numero di collezioni di moda all’anno», Oltre alla «creazione di piattaforme per lo scambio e il noleggio di vestiti usati». Il tutto per «ridurre al minimo l’impronta di carbonio e ambientale». Insomma, in nome del green, è in vista una mazzata micidiale per Francia e Italia, due paesi che da sempre hanno nel settore tessile-moda un asset economico importante, con griffe celebri nel mondo intero, protagoniste di tutte le sfilate di moda.

Tra gli obiettivi del piano Ue, per lo più discutibili e di scarsa utilità sotto ogni profilo, compreso quello ambientale, merita di essere salvato il capitolo che riguarda lo smaltimento dei rifiuti tessili. «Sono il quarto produttore di emissioni di gas serra, dopo cibo, alloggi e trasporti, oltre a consumare grandi quantità di acqua e di materie prime. Il consumo di tessili», sostiene Loonela, «è il quarto fattore più dannoso per l’ambiente e il cambiamento climatico in genere. Per questo a partire dal 2025 la raccolta separata dei rifiuti tessili sarà obbligatoria in tutta l’Unione europea. Gli Stati membri stanno già incorporando queste linee guida nei loro ordinamenti giuridici».

Non solo. Finora, è prassi comune che ogni paese Ue scarichi montagne di rifiuti tessili, per lo più vestiti dismessi, nei paesi poveri, soprattutto dell’Africa, dove quasi sempre nessuno li riutilizza e per questo vengono lasciati a marcire nelle discariche delle grandi città. Per il futuro, il piano Ue stabilisce che l’export di vestiti usati e di prodotti tessili dismessi sarà regolato in modo tale che «il paese di destinazione abbia notificato alla Commissione Ue di essere disposto ad accettare i rifiuti ed a gestirli in modo responsabile».

Quanto alle imprese tessili europee, ciascuna dovrà rivelare e notificare la quantità di prodotto invenduto che manda in discarica: norma pensata per reprimere quella che a Bruxelles considerano «cultura dell’usa e getta», frutto del consumismo tipico degli anni di un benessere che sta finendo per varie cause (globalizzazione, crisi economiche, guerra), a cui sta per aggiungersi il colpo di grazia dei dogmi green dell’Ue baby-sitter.

 

Articolo pubblicato su italiaoggi.it

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