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Piante

Ha senso una politica delle piante anziché degli Stati?

Il commento di Giuseppe Gagliano Secondo l’autorevole studioso di neurobiologia Stefano Mancuso avere diviso la superficie della terra in Stati, assegnando la sovranità a diversi gruppi umani, è una cosa inammissibile oltre che inaccettabile dal momento che l’uomo rappresenta una quantità di biomassa dello 0,01% rispetto a quella delle piante che raggiunge l’80%. Una tale…

Secondo l’autorevole studioso di neurobiologia Stefano Mancuso avere diviso la superficie della terra in Stati, assegnando la sovranità a diversi gruppi umani, è una cosa inammissibile oltre che inaccettabile dal momento che l’uomo rappresenta una quantità di biomassa dello 0,01% rispetto a quella delle piante che raggiunge l’80%.

Una tale interpretazione potrebbe apparire sorprendente nelle riflessioni di uno scienziato ma in realtà questa considerazione costituisce una logica conseguenza di una impostazione sostanzialmente anarchica della neurobiologia. A dimostrazione di quanto sostenuto l’autorevole scienziato italiano sottolinea come la costruzione di una società, come quella che si è andando formando nel corso dei secoli di storia, di natura gerarchica e verticistica sia destinata ad essere non solo estremamente fragile ma inefficace e autoritaria.

Al contrario, prendendo esempio proprio dalle piante che vivono sul nostro pianeta, sarebbe necessario immaginare qualcosa di diverso sulla falsariga della organizzazione diffuse come il corpo di una pianta. D’altra parte anche lo stesso Internet è costruito — sottolinea lo scienziato italiano — come un organismo decentralizzando caratterizzato da un elevatissimo numero di nodi che si ripetono. Ebbene proprio le piante sono realizzate in maniera modulare cioè — sottolinea lo scienziato — sono “singoli moduli che si ripetono infinite volte formando strutture sempre più vaste e complesse “ma che tuttavia non hanno un centro gerarchico come il corpo dell’essere umano. Da un punto di vista strettamente storico le critiche rivolte dallo scienziato italiano alle società di tipo gerarchico sono una rivisitazione delle riflessioni poste in essere proprio dal movimento anarchico sia europeo che americano fra ottocento e novecento.

Un altro aspetto di estremo interesse che emerge prepotentemente nel breve saggio dello scienziato italiano “La nazione delle piante” è la critica impietosa — di derivazione biocentrica tipica della ecologia profonda come dell’animalismo di prima e seconda generazione — del ruolo dell’uomo all’interno della natura, uomo che viene letto in questa opera dello scienziato italiano esclusivamente come un pericoloso predatore la cui attività — appunto predatoria — ha determinato danni enormi. Infatti, attraverso la sua continua ed irrefrenabile necessità di consumare, l’uomo-predatore potrebbe diventare la causa di una delle più terribili estinzioni di massa. Lo scenario apocalittico indicato dallo scienziato italiano è assolutamente speculare a quello indicato dei più noti esponenti dei movimenti dell’ecologia e dell’animalismo contemporanei.

Scontato, e persino prevedibile, in un’ottica anti-antropocentrica quale quella sviluppata nel saggio di Mancuso, appare il giudizio esclusivamente negativo che emerge della rivoluzione industriale che è stata possibile grazie un consumo smodato del carbone che ha determinato un incremento enorme della quantità di CO2. A tale proposito è interessante sottolineare come questa critica alla rivoluzione industriale sia analoga a quella formulata già nell’ottocento dai movimenti del socialismo utopistico e di quelli anarchici. Proprio sul fronte del pensiero anarchico, in assoluta controtendenza con le usuali interpretazioni dell’evoluzionismo darwiniano, Mancuso ci offre in questo saggio una interpretazione anarchica dell’evoluzione: facendo infatti esplicito riferimento alle riflessioni dell’anarchico russo Kropotkin la logica che sta alla base dell’evoluzione non sarebbe la competizione o il conflitto ma il muto appoggio.

Ancora più significative, se possibile, sono le sue valutazioni in merito alle previsioni che furono fatte nel 1972 dal Club di Roma in relazione all’esaurimento delle risorse come il petrolio, il carbone eccetera, previsioni queste che Mancuso ritiene assolutamente valide. In secondo luogo, usando espressioni certamente provocatorie e per certi versi paradossali, secondo Mancuso le piante sarebbero dotati di capacità di senso addirittura superiore a quello gli animali.

La domanda che dobbiamo a questo punto farci è la seguente: se per lo scienziato italiano la deforestazione dovrebbe essere equiparata ad un un crimine contro l’umanità, le piante non dovrebbero avere gli stessi diritti che, secondo gli animalisti, hanno anche gli animali? Ed ancora: se Mancuso è riuscito a interpretare la natura secondo un’ottica di tipo neuro biologico non dipende dal fatto che l’uomo è intellettualmente superiore sia alle piante che agli animali? Non è grazie alla premesse poste dalla rivoluzione industriale che Mancuso può usare quotidianamente Internet, lo smartphone e muoversi da una parte all’altra del mondo utilizzando non le piante come mezzo di trasporto ma aerei e treni?

A nostro giudizio, al di là delle competenze in campo strettamente scientifico di Mancuso, il modo di leggere la realtà da parte dell’autore nel suo complesso ci pare viziato da evidenti pregiudizi di natura ideologica e soprattutto da una visione unilaterale ed apocalittica incapace di cogliere gli aspetti contraddittorie e certamente complessi della presenza dell’uomo nella natura e nella società. Ci saremmo insomma aspettati un quadro molto più variegato e policromo della realtà.

Il nostro punto di vista è certamente diverso: l’antropocentrismo è dannoso solo nella sua forma più radicale ed intransigente. Rinunciare alla visione antropocentrica equivale a coinvolgere nel crollo secoli di gloriosa tradizione del pensiero razionale occidentale. La posizione antropocentrica insomma non va abbandonata ma va mitigata e rettificata tenendo conto delle fondamentali scoperte compiute dalle scienze naturali fra ottocento e novecento.

Siamo infatti persuasi che la tradizione occidentale abbia in sé sia il veleno che l’antidoto per rimediare alle crisi ambientali. In quest’ottica è necessario precisare che il valore che noi attribuiamo alla natura e agli animali è un’invenzione umana cioè è culturalmente e storicamente determinata dall’uomo.

In altri termini: così come i diritti naturali degli esseri umani anche quelli della natura e dell’ambiente sono storicamente determinati perché connessi a bisogni materiali e culturali oltre a essere collegati a determinate etiche pubbliche e a determinate scelte politiche. Alla luce di queste riflessioni è legittimo dal nostro punto di vista l’utilizzo delle risorse ambientali per salvaguardare la salute degli esseri umani cioè per rendere la loro vita più piacevole e nello stesso tempo per consentire alle generazioni future le stesse possibilità di godere di un ambiente il più possibile integro.

Ecco dunque che preservare la natura intatta è una questione priva di senso soprattutto se gli essere umani sono nelle condizioni scientifiche e tecnologiche di migliorarla.

Purtroppo una delle caratteristiche dell’ecologia radicale — pensiamo alla ecologia profonda o pensiamo anche alla decrescita — è la loro natura non solo profondamente ideologica ma soprattutto profondamente irrazionalistica. L’unico approccio che ci sentiamo di abbracciare e di condividere verso la natura è un approccio di tipo riformistico lontanissimo dunque dalle posizioni di chi vorrebbe stravolgere in modo radicale sia i valori della civiltà occidentale sia quelli del sistema capitalistico.

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