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Ecco le fissazioni ideologiche dell’ambientalismo anti umano

Pubblichiamo un breve estratto del libro del professore di Storia Contemporanea, Eugenio Capozzi, "Politicamente corretto - Breve storia di un'ideologia" uscito per Marsilio il 29 novembre

Il neo-misticismo ecologista non si era fermato alla connessione tra l’ipotesi Gaia e la teoria dell’origine antropica del riscaldamento globale. Alcuni movimenti e i loro ispiratori intellettuali, a cavallo tra i due secoli, stavano approfondendo l’idea che nell’equilibrio complessivo della vita sulla Terra l’uomo non fosse l’elemento principale – o l’oggetto principale di interesse di qualsiasi dibattito politico, incentrato sulla promozione di condizioni di vita quanto più possibile sane – bensì uno tra i molti; e che non andasse considerato superiore gerarchicamente, ma anzi per molti versi come un elemento problematico, potenzialmente dannoso, vista la tendenza ad assoggettare il pianeta alle proprie esigenze e ambizioni di potenza.

In tal senso andava anche l’elaborazione e diffusione del concetto di «impronta ecologica», introdotto nel dibattito occidentale dagli attivisti verdi Mathis Wackernagel e William E. Rees nel 1996. Con questa espressione si intendeva la porzione di pianeta necessaria a compensare le risorse consumate e a smaltire i rifiuti prodotti. In pratica, la presenza di ciascun individuo cominciava a essere considerata un peso per la Terra, un agente di deterioramento del suo equilibrio, se non compensata da una serie di misure di riequilibrio.

La teoria dell’impronta ecologica venne presto fatta propria dal Wwf e da altre organizzazioni mondiali, e fu all’origine di una specifica associazione chiamata Global Footprint Network. L’utilizzo di questo criterio produceva una rappresentazione del rapporto tra civilizzazione e risorse secondo cui gli individui delle società industrializzate, ai ritmi di crescita economica e demografica dell’epoca, avrebbero avuto bisogno di una superficie molto più ampia di quella che la Terra era in grado di offrire (almeno il 20% in più) per mantenere l’equilibrio ecologico vitale. L’obiettivo del coefficiente era quello di spingere le popolazioni del mondo – e in primo luogo quelle dei paesi industrializzati – ad adottare una serie di politiche in grado di ridurre i consumi più dispendiosi, rivedendo il loro stile di vita. Sull’espiazione evocata dall’ambientalismo gravava però l’ombra del nichilismo. Se l’esistenza di ogni singolo essere umano è un peso, la sua impronta è tanto meno nociva quanto meno invasiva, cioè quante meno risorse egli consuma.

A rigor di logica, dunque, l’essere umano più virtuoso verso il pianeta, anzi l’unico propriamente virtuoso, è quello che non ne consuma alcuna, cioè che non esiste. L’ambientalismo estremo rischia, insomma, di rovesciare il suo culto dell’innocenza naturale dell’umanità in un odio per gli esseri umani reali, che nella storia perdono quell’innocenza. E di sfociare così in un’avversione alla civiltà, nel perseguimento di una Terra «lieta dove non passa l’uomo», per citare Giuseppe Ungaretti.

Questo aspetto è comprensibile se si riflette sul fatto che il mito della restaurazione dell’innocenza attraverso la rimozione della ragione imperialista non si ispirava all’obiettivo di recuperare l’ossatura fondante della cultura occidentale – la lenta sedimentazione dell’idea secondo cui in ogni essere umano risiede un valore universale – ma a quello di sostituire l’umanesimo con un relativismo radicale. Con l’avvento di quest’ultimo si compie un percorso inverso a quello sancito da Immanuel Kant nei postulati della ragion pratica: l’umanità da fine torna a essere un semplice mezzo. L’essere umano diventa un’entità relativa, della quale si può fare a meno in nome dell’ideologia: in questo caso in nome della «purezza» di un ambiente integro, di un mondo «pulito».

Negli ultimi decenni si sono moltiplicati i gruppi ambientalisti oltranzisti intenti a predicare un calo dei consumi fino al limite essenziale della pura sopravvivenza, l’opzione dei rifiuti zero, con il riciclo totale delle risorse consumate, o addirittura la riduzione volontaria della popolazione terrestre attraverso la scelta di non generare figli per risparmiare inquinamento e materie prime: portando alle estreme conseguenze il neo-malthusianesimo che giocava un ruolo importante già nell’impostazione del Rapporto del Club di Roma. In direzioni analoghe, nel contesto della crisi economicofinanziaria globale incombente e poi esplosa negli anni zero, si sono diffuse dottrine come quella della «decrescita felice». Elaborata sulla base di una reinterpretazione del pensiero ambientalista del secondo Novecento (André Gorz, Ivan Illich) da Serge Latouche, e ripresa da molti economisti, spesso di formazione marxista, che hanno riconvertito il loro anticapitalismo in condanna della società industriale.

Tutte le forme di ecologismo radicale concordano, in varie forme, sul fatto che l’unico modo per garantire la salvaguardia dell’ambiente sia «riavvolgere il nastro» della storia, fermare lo sviluppo, ritornare a uno stadio precedente della civilizzazione: che non è la nostalgia di un’epoca, o una forma di tradizionalismo, ma al contrario l’aspirazione a sradicare sopraffazione e violenza per ripristinare l’innocenza e la purezza dell’Eden. Persino al costo dell’estinzione di Homo sapiens.

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