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Chi piange di più con il petrolio giù. Report Ispi

Petrolio, rischio shut-down? Fatti, analisi e scenari in un report dell'Ispi curato da Eugenio Dacrema

Se alla radice della crisi del settore del petrolio scoppiata dieci giorni fa con il crollo verticale dei Futures WTI c’è la micidiale combinazione di crollo della domanda globale, eccesso di offerta e crisi della capacità di immagazzinamento di quantitativi di greggio che nessuno vuole più, all’orizzonte di tutto ciò c’è chi vede nero.

Sin dal titolo del suo paper pubblicato ieri sul sito dell’ISPI, “Petrolio e Covid, prossimo atto: ecco perché l’Oil & Gas rischia lo shut-down”, l’analista e co-head dell’ISPI MENA Centre, Eugenio Dacrema, non ha infatti molti dubbi sul rischio che quei fattori combinati non possono escludere, ossia lo “shut-down dell’intero comparto petrolifero”.

Il ragionamento di Dacrema muove dallo sviluppo che molto ha fatto parlare gli analisti negli ultimi giorni: il clamoroso ribasso del WTI innescatosi come conseguenza dei tre fattori sopracitati.

Ribasso che, scrive l’analista, ha evidenziato i forti limiti delle “abituali modalità di trasporto e immagazzinamento (del petrolio) negli Usa”, che viene convogliato in apposite cisterne – gran parte delle quali concentrate nella cittadina di Cushing, nell’Oklahoma – dopo essere transitato attraverso delle pipeline (non costruite, precisa Dacrema, per lasciar giacere a lungo inerte il greggio iniettato).

È bastata la sola notizia dell’imminente saturazione a Cushing, prevista per l’inizio del mese prossimo, per generare il panico tra operatori del settore i quali, in procinto di chiudere i contratti di maggio, sono – scrive Dacrema – “atterriti all’idea di dover prendere fisicamente in carico del greggio (che sarebbe stato) impossibile da immagazzinare”.

La domanda che l’autore si pone a questo punto è “se dobbiamo aspettarci di assistere a ondate di panico analoghe al termine di ogni mese di contrattazioni”, o se invece si manifesterà quella che appare la conseguenza inesorabile di tale situazione: “una stasi sostanziale degli scambi”.

Se Atene piange, Sparta non ride. In teoria, ricorda Dacrema, il greggio che in Europa viene scambiato all’interno del sistema del Brent viaggia prevalentemente via mare” e quindi, a differenza del WTI, può non solo essere “immagazzinato nelle cisterne a terra “ ma essere anche “parcheggiato” sulle petroliere ancorate al largo per tempi relativamente lunghi.

Alla lunga, però, anche il Vecchio Continente finirà per pagare il prezzo della sovraproduzione, la quale – sottolinea il ricercatore – anche qui sta “rapidamente occupando tutti gli spazi di stiva disponibili, con migliaia di petroliere che (…) si ammassano lungo le coste dei principali paesi consumatori”.

Si tratta chiaramente di un trend insostenibile, visti i costi in rapida crescita dei noleggi chiesti dalle compagnie trasportatrici, nonché privo di soluzioni a portata di mano, essendo pressoché impossibile costruire per tempo le famose  nuove super-petroliere in grado di trasportare circa 2 milioni di barili alla volta.

Anche per gli europei, insomma, “stivare per la produzione dei prossimi mesi” si potrebbe rivelare un problema insormontabile, fatta salva l’unica soluzione a questo punto praticabile che risiede ovviamente a monte della filiera: il congelamento dell’intero settore.

Gli scenari che si aprirebbero in tal caso sarebbero tuttavia assai dolorosi per praticamente tutti i Paesi produttori, anche se quelli che masticherebbero più amaro sono Russia e Arabia Saudita.

Come ricorda Dacrema,  Mosca scontra un problema non da poco: i suoi giacimenti sono “collocati perlopiù a grandi profondità”. Chiuderli per un periodo prolungato implicherebbe dunque enormi difficoltà nel rimetterli in funzione, avendo oramai “perso la pressione naturale necessaria per portare il greggio in superficie”.

Ma per l’Arabia Saudita e per tutte le altre nazioni basate sulla rendita petrolifera la musica sarebbe ancora più tetra visti gli enormi ammanchi che si creerebbero nei bilanci statali e i danni a cascata che ciò comporterebbe sulle loro strutture economiche e sociali.

La conclusione a cui giunge il paper ISPI è che da questa crisi innescata da un fattore imprevedibile come il Covid-19 non si potrà uscire “con gli strumenti utilizzati in tempi “normali”.

Non è un caso che Donald Trump, superando le resistenze delle opposizioni democratiche, sia riuscito a persuadere il Congresso a varare aiuti di Stato per l’Oil & Gas made in Usa, nell’estremo tentativo di salvare soprattutto quelle compagnie che avevano puntato tutto sullo shale – i cui giacimenti operativi, ricorda Dacrema, sono scesi del 40% dall’inizio della crisi – e si trovano adesso in buon numero sull’orlo della bancarotta.

Trump tuttavia è Trump, e l’America è l’America. La domanda vera è quindi: cosa faranno tutti gli altri, salvo aspettare che il Covid-19 attenui la sua viralità e permetta alle economie di ripartire?

Perché di speranza, com’è noto, si può anche morire.

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