La casa automobilistica tedesca Volkswagen sta valutando la chiusura di stabilimenti in Germania per la prima volta nei suoi ottantasette anni di storia. Si tratta di una mossa che, al di là del probabile innesco di scontri con i sindacati locali, potrebbe avere delle conseguenze più ampie, a livello europeo: appare infatti sempre più evidente come l’industria dell’auto del Vecchio continente non stia riuscendo a competere con le società cinesi e con la statunitense Tesla nel passaggio alla mobilità elettrica.
LA CRISI DELL’INDUSTRIA AUTOMOBILISTICA EUROPEA
La crisi dell’automotive europeo, infatti, è generale. Le vendite in Europa sono ancora inferiori di quasi un quinto rispetto al periodo pre-pandemico e diversi produttori – tra cui Renault, Stellantis e, appunto, Volkswagen – stanno gestendo oltre trenta fabbriche su livelli che gli analisti considerano non redditizi, scrive Bloomberg. Tra queste fabbriche c’è anche quella di Volkswagen a Wolfsburg, la più grande d’Europa.
Il contesto è aggravato dalle grosse spese necessarie per finanziare il passaggio all’elettrico (la domanda di questi veicoli, tuttavia, non è solidissima ed è molto legata agli incentivi economici), dagli alti prezzi dell’energia nel continente e dalla perdita di quote di mercato in Cina, dove i marchi locali sono diventati estremamente competitivi.
IL CROLLO DI STELLANTIS IN ITALIA E LA PROPOSTA DI RENAULT
In Italia la produzione di Stellantis nel primo semestre del 2024 è crollata di oltre un terzo: a risentirne maggiormente sono stati gli storici stabilimenti di Melfi e di Mirafiori. L’amministratore delegato della casa francese Renault, Luca de Meo, ha proposto un’alleanza tra i costruttori automobilistici europei che preveda anche la condivisione degli asset, sul modello di Airbus.
Per fare un paragone, la valutazione di Tesla è il triplo di quelle di Volkswagen, Stellantis e Renault messe insieme.
CHE SUCCEDE A VOLKSWAGEN?
“Se persino Volkswagen sta pensando di chiudere fabbriche in Germania significa che il mare si è fatto molto agitato, considerato quanto sarà difficile questo processo. La situazione è molto allarmante”, ha dichiarato a Bloomberg Pierre-Olivier Essig, analista di Air Capital.
La valutazione di Volkswagen sugli stabilimenti tedeschi è notevole anche perché contraddice la linea espansiva tenuta per decenni e fatta di numerose acquisizioni di marchi esteri, tra cui Lamborghini in Italia, Skoda in Repubblica ceca e Bentley nel Regno Unito. La società – fortemente influenzata dalla presenza delle istituzioni della Bassa Sassonia nell’azionariato – ha risposto in modo espansivo anche allo scandalo “Dieselgate” del 2015, investendo nelle tecnologie per l’elettrico; investimenti che, però, non hanno dato i risultati sperati.
VOLKSWAGEN E L’ECONOMIA TEDESCA
Nonostante le complicate trattative e i costi associati alla chiusura di uno stabilimento, Volkswagen sembra determinata a procedere. In un comunicato diffuso lunedì, l’amministratore delegato del gruppo, Oliver Blume, ha spiegato che “il contesto economico è diventato ancora più difficile e nuovi operatori stanno entrando in Europa. La Germania come sede per il business sta perdendo terreno in termini di competitività”.
La Germania, in effetti, è in serie difficoltà economiche: nel 2023 il Pil si è contratto dello 0,3 per cento e nel secondo trimestre del 2024 è diminuito dello 0,1 per cento rispetto al precedente. L’industria pesante risente dell’aumento dei prezzi dell’energia, essendo venuta meno la possibilità di importare gas russo a basso costo ed essendo stati spenti tutti i reattori nucleari. Le elezioni di domenica scorsa negli stati orientali di Turingia e Sassonia, dove il partito di estrema destra AfD ha ottenuto risultati eccellenti, hanno inoltre evidenziato l’insoddisfazione di una parte della popolazione tedesca per le politiche di transizione ecologica basate sulle fonti rinnovabili intermittenti.
L’eventuale chiusura di uno o più stabilimenti di Volkswagen rischia di aggravare sia le difficoltà economiche che le tensioni sociali: da questi impianti dipende infatti il lavoro non soltanto delle migliaia di occupati diretti ma anche dei più numerosi lavoratori della filiera, come i fornitori di componenti e gli operatori logistici.
Senza contare che la Germania potrebbe anche veder svanire anche il progetto di Intel per un fabbrica di microchip a Magdeburgo, dal valore di 32 miliardi di dollari: la società statunitense è in crisi e nelle prossime settimane presenterà un piano di tagli e riorganizzazione delle spese.
IL COMMENTO DI FORTIS (FONDAZIONE EDISON)
Riferendosi alla situazione della Germania, Marco Fortis – economista e direttore della Fondazione Edison – ha detto a Repubblica che “la stagnazione ha acuito il disagio sociale, anche perché nel frattempo i tedeschi sono stati sottoposti a un’inflazione che temono molto e pure i consumi si sono piantati. Se poi depuriamo il Pil dalla crescita demografica capiamo che il reddito pro capite non cresce, un contesto che alimenta le spinte populiste che indicano nell’immigrato il nemico”.
A detta di Fortis, la crisi economica tedesca si può spiegare con lo “sbandamento del ceto medio”, da una parte, e dall’altra con “l’atteggiamento aristocratico della grande industria, specie quella automobilistica, che ha assecondato l’harakiri europeo del motore endotermico pensando di poter ancora dominare il mondo, mentre la Cina stava diventando un concorrente formidabile”.