È finalmente arrivato anche sulle pagine del Sole 24 Ore l’allarme che lanciammo a giugno 2021 a proposito dei crediti di imposta per i bonus edilizi. Sono fermi 15 miliardi di crediti che nessuno vuole o può comprare e sono a rischio 25mila imprese dell’edilizia. Da mercoledì, le nuove indicazioni provenienti da Eurostat circa la contabilizzazione di tali interventi hanno reso concreto il rischio che la circolazione dei crediti, attraverso plurime cessioni, come strumento di pagamento accettato e liberatorio su base volontaria, costringerebbe lo Stato a contabilizzare da subito come spesa pubblica l’intero importo dei lavori autorizzati ed eseguiti. Per il solo superbonus 110% (dati al 31 dicembre 2022) parliamo di 51 miliardi di detrazioni già maturate che salgono a 69 miliardi, considerando le detrazioni previste a fine lavori. Considerando anche gli altri bonus (bonus facciate, sismabonus, ecc…) saliamo a 110 miliardi, con uno scostamento complessivo di quasi 38 miliardi rispetto alle previsioni.
La scelta comunicata da Eurostat non deve sorprendere ed è tecnicamente corretta e ben motivata. Sin dal giugno 2021, avevamo fatto rilevare che Eurostat considerava provvisoriamente “non pagabili” i crediti da bonus edilizi ma si era riservata una valutazione definitiva. Ora è giunta ad una conclusione ineccepibile: se un credito è cedibile o riportabile negli anni per le quote non compensate e compensabile con qualsiasi debito fiscale, allora è elevatissima la probabilità che lo Stato sostenga effettivamente quel costo e che – simmetricamente – il contribuente benefici di quell’agevolazione. In altre parole, più il credito circola, più è probabile che trovi prima o poi qualcuno che abbia dei debiti fiscali da compensare. È quindi “pagabile”. Se, invece, il credito può essere compensato soltanto con le tasse dovute dal contribuente per ciascun anno, è concreto il rischio che non ci siano debiti fiscali da opporre in compensazione e che quindi la quota eccedente sia definitivamente persa. Di conseguenza, lo Stato può contabilizzare, come ha fatto, per quote annuali tali eventuali mancati incassi.
Il problema è che, sin dalla sua nascita, il superbonus si è caratterizzato per la cedibilità dei crediti di imposta e quindi si è generato nel contribuente un legittimo affidamento circa la possibilità di ottenere l’agevolazione per un importo anche ben superiore ai propri debiti fiscali. Quindi, in caso di eccedenza o necessità di liquidità, il contribuente poteva da subito ottenere il beneficio, attraverso la cessione del credito. Nel novembre 2021 il governo di Mario Draghi è entrato a gamba tesa su questo meccanismo, ponendo un limite alle cessioni e lasciando col cerino del credito in mano migliaia di imprese che avevano eseguito lavori, scontando direttamente in fattura l’agevolazione al committente, ma che non trovavano più banche disposte all’acquisto. Il successivo intervento del governo di Giorgia Meloni – col decreto Aiuti-Quater e con la legge di bilancio – che ha portato a cinque le cessioni complessive (di cui tre in “ambiente protetto”, cioè verso banche) e concesso la possibilità di compensare in dieci anni, ha solo marginalmente migliorato la situazione, che resta critica.
Che la situazione stesse volgendo al peggio per le imprese ed i contribuenti, lo avevamo compreso il 18 gennaio leggendo la risposta scritta del Mef, a mezzo della sottosegretaria Lucia Albano, ad un’interrogazione parlamentare. In quel documento, si anticipavano le conclusioni della nuova sezione del manuale di contabilità dell’Eurostat e si sottolineava che la cedibilità del bonus ne determinava la “pagabilità” con conseguenti “impatti di finanza pubblica”.
Giunti a questo punto, è bene essere chiari, sia per il futuro che per il passato. Chi paventa “pericoli” per i conti derivanti dalla eventuale contabilizzazione immediata di 69 miliardi (il 3% del PIL) nella spesa pubblica e quindi nel debito/Pil – che nel 2023 aumenterebbe dal 144,6% programmatico al 147% circa – dovrebbe riflettere sul fatto che finora l’unico impatto di finanza pubblica (positivo) dei bonus edilizi è stato quello di garantire almeno 1/5 della crescita del PIL del 2022 (+3,9%). Come dimostrato in numerosi studi, pubblicati qui, qui e qui. A costoro andrebbe ricordato che già oggi il debito/PIL è più alto di 3 punti solo perché abbiamo contribuito ai vari Mes, Efsf e prestiti ad altri Stati UEM. Allora nessuno si è stracciato le vesti?
Il fatto che le regole contabili determinerebbero una punta straordinaria del debito/PIL nel 2023 (ma un minor onere negli anni successivi) è una noiosa disputa di ragioneria dall’impatto nullo sull’economia reale. Poiché ciò che rileva è che i lavori sono stati eseguiti ed i crediti sono maturati. L’effetto per cassa sarà quello determinato dalla scansione annuale delle compensazioni eseguite dai titolari dei crediti, sia originari che cessionari. Tutto il resto è noia.
Il presunto allarme dei mercati per un indicatore a cui sono molto sensibili è un falso problema. Perché il vero problema per un investitore che compra Btp sarebbe quello di vedere fallire migliaia di imprese e bloccare nuovamente un settore che è appena uscito dal buio del decennio passato. Non certo quello di guardare un numerino, agitando la minaccia dello spread. Il governo ha un prezioso match point per rilanciare il Paese e conquistare la fiducia dei contribuenti: faccia circolare liberamente tutti i crediti di imposta e pensi alla crescita, non alle congetture contabili. A meno che queste non siano un alibi (simile a quello delle frodi) per tagliare il beneficio ex-post. Allora il match point diventerebbe un autogol.