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Vi racconto il braccio di ferro tra Bce e governi

Che cosa succede davvero fra la Bce e i governi degli Stati dell'eurozona. L'analisi di Giuseppe Liturri

È in atto, non da oggi, un braccio di ferro tra la Bce e i governi degli Stati dell’eurozona.

Da un lato, a Francoforte premono per ridurre i titoli pubblici acquistati nell’emergenza lockdown. Dall’altro i governi chiedono, a mezza voce, che la Bce riduca i tassi, con un’inflazione ormai sotto controllo. Ammesso e non concesso che la Bce abbia avuto un ruolo nella sua riduzione.

Giovedì è prevista l’ultima riunione del consiglio direttivo della Bce prima della pausa estiva. E i segnali per un nulla di fatto sono ormai concordanti tra gli analisti.

Ma le “scuse” a disposizione di Christine Lagarde stanno esaurendosi rapidamente o stanno diventando ridicole come quelle usate dai bambini dell’asilo.

L’ultima trovata è quella dei timori di ripartenza dell’inflazione causata da una politica di bilancio espansiva o non sufficientemente restrittiva della Francia e, manco a dirlo, dell’Italia.

Ieri le solite fonti “anonime” del consiglio della Bce hanno scelto le colonne del Financial Times per imbucare il “pizzino”.

I timori che la Francia non riesca a rispettare la traiettoria di consolidamento fiscale richiesta dalla Commissione, in forza del riformato Patto di Stabilità, sono abbastanza diffusi. “Chi ne sa qualcosa della politica francese, sa che non c’è una sola parte di elettorato favorevole al consolidamento fiscale […] tutti i governi hanno approvato queste nuove regole, ora dovremmo ricordare loro di attenervisi” è il commento della solita vocina ciarliera dall’Eurotower. Con tanti saluti all’autonomia del governo e alla sovranità del Parlamento.

Considerato lo stato pre-comatoso dell’economia Ue e francese in particolare, sono considerazioni prive di fondamento. Il perché l’ha spiegato il governatore Fabio Panetta, lo scrive anche il FT e lo ripetiamo qui: non esiste timore di spirale prezzi-salari perché gli aumenti salariali stanno trovando spazio nei profitti delle imprese, saliti vistosamente durante l’inflazione; l’inflazione dei servizi è sempre stata strutturalmente più vischiosa (rapida nella salita, lenta nella discesa).

Si comprende così meglio il senso dell’uscita di martedì da parte del ministro Giancarlo Giorgetti (“Non serve una manovra lacrime e sangue”). Parole che poggiano su solide fondamenta tecniche descritte, da ultimo, dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio (Upb). E che sembrano rispondere ai timori della Bce. Voi fate il vostro, che ai fatti miei ci penso io. Sembra il messaggio in bottiglia lanciato dal ministro.

Così anche Federico Fubini sabato sul Corriere della Sera – dopo mesi passati a preannunciare l’inevitabile schianto del Governo di fronte alle difficoltà della prossima legge di bilancio – ha dovuto correggere la rotta.

Pare infatti che “il gioco a incastri potrebbe rivelarsi meno difficile di quanto si pensasse”. Per ben due motivi che i nostri lettori però conoscono da mesi.

Il primo è la condizione difficile della Francia, i cui disastrosi fondamentali macroeconomici, soprattutto sul fronte della finanza pubblica, sono noti da tempo. Infatti, da gennaio (quando la Commissione pubblicò le prime simulazioni), è evidente la rotta di collisione tra l’entità dell’aggiustamento richiesto dal riformato Patto di Stabilità (Psc) e la tendenza al peggioramento dei conti pubblici transalpini.

Sono i francesi i primi sulla linea del fuoco della Commissione, a prescindere dal governo che si insedierà a Palazzo Matignon. E non da oggi.

iI secondo motivo è quello della tendenza positiva dei nostri conti pubblici. Anche su questo punto, avevamo già evidenziato i margini di maggiore flessibilità concessi dalla riforma del Psc e il positivo andamento delle entrate tributarie. Inoltre c’è tuttora da esplorare un consistente spazio negoziale con la Commissione. Infine, la riduzione strutturale richiesta dal Psc è interamente già incorporata nei conti pubblici fino al 2027. Non sono richiesti tagli aggiuntivi così come stanno già facendo i francesi. Sarebbe bastato leggere il Def di aprile o l’ultimo rapporto dell’Upb sulla politica di bilancio del 19 giugno. Dove leggiamo che “l’aggiustamento richiesto per rispettare il nuovo quadro di regole da parte dell’Italia è stimato dall’UPB in 0,5-0,6 punti percentuali di PIL all’anno su un sentiero di aggiustamento settennale. Per il triennio 2025-27, l’evoluzione a legislazione vigente del disavanzo in rapporto al PIL presentata nel DEF appare coerente con le indicazioni del nuovo quadro di regole della UE.” Quindi piena “coerenza” tra la situazione dei conti e le richieste della Commissione. 

Sulla stessa linea la nota di lavoro del 4 luglio firmata da cinque economisti dell’Upb, secondo i quali “il confronto tra il consolidamento di bilancio coerente con la precedente convergenza all’OMT e quello coerente con il nuovo PSC mostra che quest’ultimo implica lo stesso aggiustamento annuale o uno più basso nel caso di un periodo di aggiustamento in sette anni, mentre ne richiede uno maggiore durante un periodo di aggiustamento in quattro anni. Tuttavia, nel nuovo quadro di regole, dopo il periodo di aggiustamento è necessario un consolidamento significativamente inferiore.” In sostanza il passaggio dal vecchio al nuovo Patto di Stabilità si è rivelato vantaggioso per l’Italia, richiedendo un minore aggiustamento di bilancio, al termine del quale la stretta sui conti dovrebbe ulteriormente allentarsi.

Intendiamoci, sin dai lavori preparatori della riforma abbiamo contestato in radice l’esistenza stessa del Psc. Quale che sia. L’unico Psc buono è quello che non esiste. Un pezzo di antiquariato che risale ad un’altra era geologica dell’economia. Ma, non avendo potere contrattuale per imporre o solo proporre altre soluzioni, era ed è il meno peggio che avrebbe potuto capitarci.

Diamo quindi il benvenuto al Corriere che oggi scopre che “la prossima legge di bilancio non si profila come lo scoglio contro il quale sia destinata a sfasciarsi la caravella del governo”.

Scoperte che si fanno quando gli auspici vengono presentati come sotto forma di dotte e forbite analisi.

Il fatto, ormai accertato, che fino al 2027 non saranno richiesti ulteriori riduzioni di deficit non deve però farci dimenticare che questo Governo deve comunque avere uno spazio di manovra, non può certo limitarsi ad assistere al dispiegarsi degli effetti delle norme già in essere.

Per il 2024 sarà possibile trovare 21 miliardi per il taglio del cuneo fiscale e la rimodulazione delle aliquote Irpef, grazie al buon andamento delle entrate ed un accorto lavoro di taglia e cuci nelle pieghe del bilancio. Ma non può bastare. Perché si può e si deve lavorare sul fronte europeo per denunciare l’assurda pro ciclicità di quelle regole (già sperimentata negli anni dieci) e sfruttare tutti i margini di flessibilità nel negoziare il piano con la Commissione.

Fronte sul quale dobbiamo assistere increduli all’ammissione, sempre sul Corriere, che i prestiti del Pnrr gonfiano deficit e debito e “minacciano di far saltare la traiettoria tecnica che il governo deve rispettare”. Anche qui registriamo con favore il dissolvimento della leggenda della “pioggia di miliardi” che abbiamo ribattezzato da tempo in “pioggia di debiti” e facciamo notare che finora (con la quinta rata) l’Italia ha incassato 113,5 miliardi, il 58% dei 194 previsti (122 di prestiti e 72 di sussidi). Ciò che procede a rilento è la spesa di quei fondi (siamo intorno ai 50 miliardi) non l’incasso da parte di Bruxelles, il cui tempismo è perfetto. Di conseguenza i prestiti da ricevere e da contabilizzare nel debito pubblico sono molto meno dei 100 di cui si legge sul Corriere.

L’eventuale rinvio al 2028 servirebbe solo per spendere buona parte dei soldi già incassati, chiudendo così i cantieri che condizionano anche l’incasso delle ultime 4 rate.

Tuttavia questo dettagliato ragionamento in linea tecnica sembra dissolversi come neve al sole davanti alla beffarda conclusione di Fubini che sostiene che per “cavarcela abbiamo bisogno di un grosso favore, dalla Commissione e dagli altri governi”. Giovedì prossimo, con il voto degli eurodeputati di Fdi a favore di Ursula von der Leyen diventerebbe tutto più “facile”.

Constatiamo che ci ammorbano da sempre con la retorica delle regole, ma poi tutto si risolve con la logica del mercato delle vacche. In cui le regole si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici.

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