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Tunisia

Tutti i balletti dei 5 Stelle su Mes e von der Leyen

Mes, M5s e non solo. L'analisi di Gianfranco Polillo

 

Alla fine, salvo miracoli improvvisi al momento imprevedibili, bisognerà arrendersi all’idea che in Parlamento non esiste una maggioranza a favore del Mes. A sostenere le ragioni di Bruxelles è rimasto solo un pugno di europeisti convinti “senza se e senza ma”. Il risultato sarà, comunque, sconfortante. Con l’Italia che rischia di essere l’unico Paese europeo a votare contro, nel prossimo Consiglio europeo, chiamato a ratificare le decisioni dell’Eurogruppo. Voteranno a favore del progetto, la cui gestazione si è prolungata soprattutto a causa delle resistenze italiane per oltre un anno, le grandi famiglie dei popolari e dei socialisti. Rimane l’interrogativo della Polonia e dell’Ungheria. Ma non ci faremmo molte illusione. La partita che quei due Paesi stanno giocando è ben più complicata. E gli spazi per ulteriori contrapposizioni sono limitati.

L’Italia, comunque vada a finire, rischia quindi di uscirne con le ossa rotte. Colpa dei funambolismi della sua politica. Soprattutto dell’incoerenza dei 5 stelle che prima votano per Ursula von der Leyen, rompendo la maggioranza giallo-verde, ma poi non hanno il coraggio di mantenere la posizione. Trascurando di considerare il fatto che quel voto a favore, lo era anche per la più importante novità che covava sotto la cenere. Quel Mes, appunto, deciso da Francia e Germania, negli anni passati; ma che ora stava prendendo una piega diversa da quella a suo tempo ipotizzata.

Una volta c’era, infatti, il Fondo salva stati, il Fesf, le cui risorse erano state utilizzate per far fronte alla crisi greca, irlandese, portoghese, spagnola e cipriota. Ma fin dall’inizio si pensava che si trattasse di una situazione transitoria. La riforma avrebbe dovuto inserire pienamente l’Istituto nella logica comunitaria. Ed invece non fu così: troppo impegnativa, specie per i Paesi del nord, quella soluzione. Si optò allora per un accordo – l’unico possibile – intergovernativo dando luogo ad una figura che sembra un ircocervo: i soldi sono dei singoli partecipanti al capitale, ma la gestione vede un coinvolgimento delle istituzioni europee. Qualora dovesse intervenire, infatti, il memorandum, che riassume le condizionalità, esso dovrebbe essere concordato con la Commissione europea, la Bce e lo stesso Fmi.

Perché sia stata scelta questa strada tortuosa è facile da vedere. I Paesi più virtuosi volevano limitare il rischio. La loro responsabilità terminava con l’erogazione dei fondi di partecipazione al capitale. Fondi, per altro, in larga misura ancora congelati. Il Mes ha, infatti, un capitale sottoscritto pari a 704,8 miliardi, di cui solo 80,5 (poco più dell’11 per cento) effettivamente versati. La sua capacità di prestito ammonta, inoltre, a 500 miliardi. Sommando il tutto si ha a disposizione un volume di fuoco tutt’altro che trascurabile per far fronte ad eventuali crisi che dovessero colpire i singoli Paesi.

Perché allora rinunciare ad uno strumento che potrebbe dimostrarsi, comunque, utile? Soprattutto per partito preso, come spesso capita nella politica italiana. Ma un partito preso che ha un suo fondamento nella storia più recente del Paese. Il Mes è stato il fratello siamese del Fiscal compact: quelle regole e regolette che la pandemia ha spazzato via e che dovranno essere riviste il “day after” la sconfitta del virus. Almeno così si spera. Una fase che fu caratterizzata dal “montismo”, se così si può dire. Una politica dura e per alcuni versi anche necessaria, ma che nell’immaginario collettivo è rimasta connotata come uno degli peggiori esperimenti mai tentati.

Spetterà agli storici dare le spiegazioni più penetranti. Ma certo non fu un bel vedere la figura di un condottiero, quale fu il Presidente del consiglio di allora, che agli altri predicava sacrifici e responsabilità, nei supremi interessi del Paese. Ma intanto aveva voluto la nomina a senatore a vita, prima di assumersi l’onere di leader di un governo che si apprestava ad una politica di “blood, toil, tears and sweat” (sangue, fatica, lacrime e sudore) per dirla con le parole di Winston Churchill. Quella contraddizione così evidente pesa, ancora, oggi nei confronti dell’Europa: di cui, a torto o ragione, Mario Monti fu considerato una sorta di plenipotenziario.

Se quindi alcuni atteggiamenti sono anche comprensibili, quando si entra nel campo delle valutazioni più fredde, il giudizio cambia notevolmente. In caso di crisi, che nessuno ovviamente auspica, invece del Mes cosa si potrebbe avere? Questo è l’interrogativo di fondo. Se il Mes è una sorta di polizza assicurativa, in caso d’incidente automobilistico esserne sprovvisti, cosa comporterebbe? Finora risposte serie non si sono viste, da parte dei detrattori. C’è stato solo un balbettio senza costrutto.

Si è detto – Alberto Bagnai della Lega è stato un capofila – deve intervenire la Bce. Comprare, come sta facendo adesso, i titoli del debito sovrano di ciascuno Stato. Una sorta di monetizzazione integrale, sebbene quest’ipotesi sia stata tassativamente esclusa dai Trattati, al punto da rappresentare uno degli architravi della costruzione europea. Non si dimentichi che, in Italia, il divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia avvenne nel 1981. E non fu certo, allora, l’Europa ad imporre quella scelta, ma una situazione di progressiva ingovernabilità della finanza pubblica italiana. Residuo di quel “compromesso storico” che, nel decennio precedente, aveva sempre più fatto somigliare l’Italia al Cile di Allende.

Si trascura, in proposito, un piccolo particolare. L’intervento della Bce è stato tale solo perché posta di fronte ad una crisi di carattere esogena ed una pandemia che ha colpito l’intera comunità internazionale. Il Mes, invece, è chiamato ad intervenire solo quando la crisi è di carattere endogeno. Riguarda cioè le singole realtà nazionali. E di conseguenza il suo intervento non può che variare a seconda delle caratteristiche della malattia da aggredire. Se lo squilibrio finanziario è solo temporaneo, basta una cura blanda e l’erogazione dei finanziamenti necessari. Ma se lo squilibrio finanziario è conseguenza di guasti macroeconomici, allora, è lì che bisogna intervenire. Se non si vogliono buttare soldi dalla finestra.

È un disegno razionale? Non spetta a noi rispondere. Ma in economia, come nella medicina, bisogna evitare le due tendenze contrapposte. Quella del medico pietoso e quella opposta dell’accanimento terapeutico. Si rischia, in entrambi i casi, di produrre disastri ancora maggiori del male da curare.

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