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Economia Americana

Come procede il distacco commerciale tra Stati Uniti e Cina?

Gli Stati Uniti dicono di non volere il decoupling dalla Cina, ma i dati raccontano un distacco commerciale in atto: nel 2023 Pechino varrà meno della metà delle importazioni di Washington dai paesi a basso costo in Asia. Tutti i dettagli

 

Lo scorso aprile la segretaria del Tesoro degli Stati Uniti, Janet Yellen, aveva respinto l’idea di un decoupling, cioè di un completo distacco commerciale, tra l’America e la Cina. “Non cerchiamo di disaccoppiare la nostra economia da quella della Cina”, aveva detto. “Una separazione totale delle nostre economie sarebbe disastrosa per entrambi i paesi”, dato l’enorme interscambio di beni e servizi (690,6 miliardi di dollari nel 2022: un record), oltre che “destabilizzante per il resto del mondo”. La segretaria, in realtà, aveva specificato che un certo grado di decoupling si sarebbe verificato, ma limitato ad “alcune aree di prodotti strategici”, come i microchip e i metalli critici per la transizione energetica.

COSA DICONO I DATI DI KEARNEY SUL DISTACCO AMERICA-CINA

Stando ai dati della società di consulenza Kearney, pare invece che il distacco commerciale dalla Cina stia avvenendo su una scala più ampia, perché nel 2023 questo paese rappresenterà meno della metà delle importazioni a basso costo dall’Asia degli Stati Uniti: si tratta di un dato molto significativo, trattandosi di una situazione che non si era mai presentata in oltre un decennio.

“Per la fine del 2023”, si legge nel rapporto di Kearney, “la porzione della Cina nelle importazioni statunitensi” dai paesi asiatici a basso costo (Giappone e Corea del sud non rientrano in questa definizione) “sarà sicuramente scesa sotto il 50 per cento”. Nel 2022 i beni cinesi hanno rappresentato il 50,7 per cento delle importazioni manifatturiere statunitensi dall’Asia, stando a Kearney. Nel 2013, prima dell’inizio della competizione politico-commerciale tra Washington e Pechino, la quota era vicina al 70 per cento.

LE RAGIONI

Il calo della percentuale cinese sulle importazioni asiatiche è dovuto a due ragioni. La prima è il trasferimento di alcune aziende statunitensi presenti nel paese (un tempo considerata “la fabbrica del mondo”), che stanno spostando le operazioni manifatturiere in altre parti d’Asia per non finire coinvolte nelle tensioni politiche. La seconda ragione ha a che vedere con le abitudini di spesa dei consumatori americani, più sensibili ai prezzi: scendono allora gli acquisti dalla Cina, ma salgono le importazioni dal Vietnam (raddoppiate negli ultimi cinque anni), dall’India, dalla Malaysia e da Taiwan.

Il distacco manifatturiero americano dalla Cina è iniziato durante la presidenza di Donald Trump, che aveva avviato una trade war, ovvero una “guerra” dei dazi, con Pechino. Il fenomeno è ulteriormente accelerato sotto l’attuale amministrazione di Joe Biden, che sta dando parecchia attenzione alla sicurezza degli approvvigionamenti e all’isolamento cinese dalle tecnologie strategiche (i microchip, innanzitutto).

La linea della Casa Bianca, fatta di restrizioni al commercio con Pechino e di incentivi (l’Inflation Reduction Act e il CHIPS Act) al trasferimento della manifattura sensibile in patria o in Nordamerica, “continuerà a portare a un aumento degli investimenti via dalla Cina verso gli Stati Uniti e al Messico per quanto riguarda, ad esempio, la produzione di semiconduttori [e] di batterie per veicoli elettrici”, secondo le previsioni di Kearney.

IL FRIEND-SHORING IN VIETNAM, INDIA E MESSICO

Come fa notare il Financial Times, anche la banca Morgan Stanley pensa che “l’aumento dei costi del lavoro in Cina, le tensioni geopolitiche e le questioni legate ai diritti umani [gli abusi sulla minoranza uigura nello Xinjiang, ndr] hanno incoraggiato altre aziende a fare meno affidamento su Pechino come fabbrica del mondo”.

Morgan Stanley aggiunge che “lo svincolamento delle due economie ha portato al ritorno in patria della manifattura critica e a uno spostamento delle importazioni dalla Cina all’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico, all’India e al Messico”. È un fenomeno, quest’ultimo, noto in gergo come friend-shoring: consiste, in breve, in una delocalizzazione della produzione all’interno di paesi affini sul piano politico o comunque affidabili, per ridurre i rischi di ritorsioni governative sulle catene di approvvigionamento. Le mete evocate più spesso nei discorsi sul friend-shoring sono appunto il Vietnam (una repubblica socialista, in realtà, ma può vantare un basso costo della manifattura), l’India (una democrazia, pur tra molte contraddizioni) e il Messico (alleato degli Stati Uniti, geograficamente vicino e ben integrato nelle catene del valore nordamericane).

I DATI SUL TRAFFICO DI CONTAINER

Il riorientamento delle importazioni statunitensi in Asia si evince anche dai dati sul traffico marittimo di container. Da febbraio 2022 a marzo 2023 la quota della Cina sul totale delle importazioni americane di container è passata dal 42,2 per cento al 31,6 per cento (da allora però si è ripresa leggermente per effetto della riapertura economica cinese).

Da febbraio 2022 ad aprile 2023 le quote di India e Thailandia sono cresciute rispettivamente del 4,1 e del 3,8 per cento.

IL PROBLEMA DELL’INDUSTRIA CHIMICA

Uno studio del 2019 di Deutsche Bank condotto su 719 prodotti per i quali gli Stati Uniti si affidano alla Cina sostiene che il 95 per cento di questi possano venire acquistati da altre parti d’Asia. Fanno eccezione trentotto prodotti chimici, o comunque legati a questo settore.

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