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Perché non reggono le tesi di Porro e Travaglio sulle sanzioni anti Russia

Prima di avallare tesi destinate a portare acqua al mulino degli invasori, alcuni opinionisti dovrebbero guardare meglio ai dati di contesto per valutare le sanzioni alla Russia. L'analisi di Gianfranco Polillo

 

È un fascino più che discreto quello che Vladimir Putin continua ad esercitare su alcuni opinion leader italiani. “Russia, i dati confermano: le sanzioni non funzionano, titolava il 1 gennaio Nicola Porro, nel suo blog. E Il Fatto Quotidiano: “L’attività produttiva della Russia si espande anche in dicembre. L’indice Pmi del paese mostra il valore più alto del mondo”. Insomma le vecchie tesi del produrre “più burro e più cannoni”, che fu caratteristica delle teorie dell’imperialismo, risuonano ancora fra le torri dorate del Cremlino.

LA TESI DI PORRO SULL’INEFFICACIA DELLE SANZIONI ALLA RUSSIA

A dimostrazione che le sanzioni, almeno finora, non hanno funzionato, o meglio hanno funzionato poco, Nicola Porro riporta uno studio di Robin Brooks, chief economist e former chief di Goldman Sachs. Il quale, tuttavia, sembra piuttosto descrivere come la Russia abbia potuto sopravvivere contro le misure adottate dall’Occidente. Piuttosto che accennare al migliore dei mondi possibili. L’osservazione di base è data dal forte attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Cresciuto a dismisura dopo l’invasione in Ucraina.

Le previsioni più recenti della Banca centrale russa indicano per i primi tre trimestri del 2002 un surplus delle partite correnti pari a 198,4 miliardi di dollari, contro i 75,2 del corrispondente periodo dell’anno precedente. A dimostrazione di come la guerra, almeno fino a qualche mese fa, sia stato un buon affare. Da questo punto di vista, secondo Brooks, le sanzioni hanno inciso poco. Sono state sanzionate alcune banche, che hanno subito perdite anche consistenti, ma sono state subito rimpiazzate dalle altre, che hanno visto aumentare enormemente il loro giro d’affari. Il modo migliore per punire Putin, allora, – questa la ricetta indicata – è quello di sanzionare tutte le banche, giungendo ad un embargo totale delle esportazioni russe.

I ritardi maggiori si sono, invece, avuti sul price cap: imporre un tetto sui prezzi delle forniture avrebbe consentito di ridurre notevolmente il flusso valutario a favore di Gazprom. Le esportazioni verso la Cina sarebbero comunque aumentate, ma considerato il differenziale nei relativi prezzi di vendita, non sarebbero riuscite a compensare le perdite maturate sui più redditizi mercati occidentali. Naturalmente, questi ritardi, hanno un nome ed un cognome. Sono stati soprattutto conseguenza della resistenza degli armatori greci, timorosi di perdere le commesse relative alla logistica del trasporto del petrolio. Dal quale la Russia riceva i maggiori introiti. Nel 2020 le esportazioni di petrolio hanno reso 72,5 miliardi di dollari, contro i 25,6 del gas ed i 6,7 di GPL.

Una pacchia destinata a finire? Forse si, annota sempre Brooks, i futures sul petrolio, dopo il price cap, stanno crollando. Mentre cresce il rischio di una recessione globale, che accentuerebbe tutte le difficoltà dell’autarchia russa. In parte già evidenti.  Con il trascorrere dei trimestri – aggiungiamo noi – il forte attivo della bilancia commerciale, rispetto al corrispondente periodo del 2021, si è progressivamente assottigliato. Era pari a più di tre volte tanto nel primo trimestre, per ridimensionarsi ad una volta e mezza nel terzo.

COSA SCRIVE IL FATTO QUOTIDIANO SULLE SANZIONI ALLA RUSSIA

Sul fronte opposto – quello de Il Fatto Quotidiano – l’accento è riposto sul grande dinamismo delle PMI russe. L’indice S&P Global Purchasing Managers’ Index (Pmi) che monitora gli orientamenti dei responsabili degli acquisti delle aziende, seppure in lieve contenimento a dicembre, sarebbe comunque “il dato più alto tra quello dei paesi monitorati.” Il calo delle esportazioni, conseguenza delle sanzioni imposte, sarebbe “per ora compensato dall’incremento della produzione e della domanda interna. In questo andamento” potrebbe avere peso “anche la produzione di armamenti ma, al momento, l’economia russa non palesa segnali di tracollo”. Anzi: verrebbe da dire.

PERCHÉ LE DUE ANALISI NON CONVINCONO

In che cosa non convincono le analisi, così come sono state presentate? Nel fatto che entrambe tendono ad accreditare la tesi che puntare sulle eventuali difficoltà interne del Cremlino, nella speranza di giungere ad una pace giusta, sia, più o meno, una perdita di tempo. Che Zelensky si rassegni – direbbe Alessandro Orsini, tristemente noto per le sue simpatie filo putiniane – contro la forza bruta non c’è ragione che possa valere. E poco importa se l’insegnamento della storia dimostri, quasi sempre, il contrario. Nel caso specifico, tuttavia, i nostri opinion leaders, prima di avallare tesi destinate a portare acqua al mulino degli invasori, dovrebbero guardare meglio nei dati di contesto, per vedere se essi siano o meno coerenti con il sentiment delle analisi riportate.

Se tutto fosse oro che luccica, per esempio, il rublo non si sarebbe svalutato nei confronti di tutte le altre monete, inerenti i principali Stati con cui la Russia commercia. A partire dai primi di dicembre la perdita di valore è stata pari in media ad oltre al 16,5 per cento. A sua volta, le riserve valutarie non sarebbero diminuite di quasi 50 miliardi di dollari (da 630,5 a 581,7) con un calo pari al 7,75 per cento. Segno evidente di difficoltà macroeconomiche di un certo peso. Ma soprattutto le grandi preoccupazioni della Banca centrale, inerente la persistenza di un tasso d’inflazione difficile da contenere, sarebbero ingiustificate.

Quest’ultimo argomento merita una riflessione aggiuntiva. Le PMI russe mostrano i risultati illustrati da Il Fatto Quotidiano, per la semplice ragione che sono state chiamate ad un ruolo di supplenza. Hanno dovuto compensare le minori importazioni ottenute a seguito dell’embargo conseguente le sanzioni. Decisioni che spesso hanno interrotto il flusso della produzione, determinando, come nel caso dell’automotive, l’impossibilità di consegnare il prodotto finito. A queste interruzioni si è cercato di rimediare con una maggior produzione autoctona. La quale, tuttavia, ha determinato un forte aumento dell’occupazione, in un mercato divenuto sempre più asfittico, a causa della coscrizione obbligatoria, che ha sottratto risorse umane all’economia ed alla fuga all’estero di molti giovani. Rigidità che hanno fatto crescere i salari e di conseguenza il tasso d’inflazione. Che, a sua volta, ha portato ad una riduzione delle riserve valutarie e alla svalutazione del rublo. Si è così innestata quella spirale inflazionistica, che è il segno più evidente di quel malessere economico e sociale, che le analisi parziali non riescono a registrare.

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