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Schlein

Vi spiego gli errori della sinistra sul salario minimo

Il salario minimo deciso per legge non porterà alcun beneficio ai lavoratori inseriti nel circuito produttivo più avanzato. L'analisi di Gianfranco Polillo.

 

Il territorio che segna la proposta di salario minimo ha tante di quelle trappole da somigliare alle postazioni conquistate dai russi in Ucraina e cosparse di mine. Cominciamo dall’analisi del teatro di guerra. Una geografia economica segnata da una orografia complessa e variegata. L’Italia non è come la Germania, ma nemmeno come la Francia o la Spagna. Realtà segnate da un ordine economico più standardizzato e prevedibile. Al contrario il suo punto di forza, è rappresentato da quelle miriadi di piccole e piccolissime imprese, che a volte si trasformano in multinazionali tascabili. Croce e delizia di quella sorta di giraffa, che in natura non dovrebbe esistere, ma che invece ancora popola le savane africane.

LE REGOLE GENERALI NON VALGONO PER IL SALARIO MINIMO

La prima conseguenza di questa struttura a macchia di leopardo è lo scarso appeal di ogni regola generale. Non esistendo una media prevalente – diceva bene il buon Trilussa – quel vestito “taglia unica” sarà troppo grande per alcuni è troppo piccolo per altri. Il salario minimo deciso per legge, in altre parole, non porterà alcun beneficio a quei lavoratori da tempo inseriti nel circuito produttivo più avanzato. Mentre rappresenterà un indubbio vantaggio per il “lavoro povero”. Quello che è tale non a causa di un destino cinico e baro, ma per la bassa produttività che lo caratterizza. Troppo giustificazionista si potrebbe subito dire. Del tutto fuorviante rispetto al tema centrale dello sfruttamento. Che poi è il vero peccato originale del capitalismo all’italiana.

Per la verità non è proprio così. Nemmeno gli economisti classici, oltre 100 anni fa, erano arrivati a tanto. Per Marx lo sfruttamento più insidioso era quello che produceva plusvalore relativo. Grazie all’uso crescente della tecnologia, si direbbe oggi, l’appropriazione da parte del capitale aumentava e non diminuiva, sebbene i salari potevano aver raggiunto un valore superiore al semplice livello di sussistenza. Nel caso del lavoro povero, invece, si entra nel campo del plusvalore assoluto. In cui lo sfruttamento, nel senso dell’appropriazione capitalista, è minore. Ma dove l’antagonismo “capitale-lavoro” è più feroce causa degli scarsi benefici del mancato sviluppo produttivo. Condizioni indegne di un Paese civile? Indubbiamente, ma scambiare le cause con gli effetti è come guardare al dito che indica la luna.

LA PRODUTTIVITÀ, I PROFITTI E L’ARDIRE DELLA SINISTRA

In questa realtà, che può vivere anche in un “modo di produzione” più evoluto, il problema, se non si vuol giungere al semplice fallimento, ammette un’unica soluzione. Quella di contribuire alla crescita dell’output, evitando tuttavia che gli eventuali guadagni di produttività si trasformino esclusivamente in aumento dei profitti. Il mestiere nobile di un sindacato capace di negoziare con intelligenza. Per alcuni, invece, si propende per un nuovo interventismo dello Stato. Tutto lo stupore di Carlo Cottarelli su Twitter nel leggere una delle clausole contenuta nel disegno di legge in discussione in Parlamento. Quella che prevede costituzione, in legge di bilancio, di un fondo che aiuti le imprese ad adeguare i salari al minimo legale.

Per la verità un simile ardire non dovrebbe sorprendere. La storia della sinistra, non solo italiana, è piena di queste trovate. In passato, ad esempio, “l’imponibile di mano d’opera” era un obbligo addossato alle aziende. Per combattere la disoccupazione dovevano occupare un numero maggiore di lavoratori, rispetto alle esigenze fisiologiche dell’impresa. Regola che, nella vecchia Unione sovietica, era stata generalizzata. Con quali risultati si vide nel 1989. Ma senza andare così lontano, basti pensare agli LSU (lavori socialmente utili), nati per far fronte all’emergenza, si sono trascinati per anni tra proteste, pressioni, ed appelli caritatevoli.

Dovrebbe essere diverso, nel caso di un sussidio pubblico a favore del “lavoro povero”? Non solo c’è da dubitarne, ma con ogni probabilità si andrebbe di male in peggio. In questo caso, infatti, la commistione tra rendita e profitto diverrebbe inestricabile. Il servizio, cosi veicolato, verrebbe supportato in parte dal mercato ed in parte dallo Stato, creando una miscela destinata ad uccidere qualsiasi voglia di cambiamento. Visto che il rapporto “capitale-lavoro”, da quel momento, è garantito dalla mano pubblica. La stasi ne sarebbe la conseguenza più probabile. Potrebbe essere un intervento solo provvisorio? In teoria: ma una volta garantito andrebbe avanti per forza d’inerzia, come nel caso dei “forestali” in alcune regioni italiane.

ARITMETICA E POLITICA ECONOMICA

Queste quindi le grandi difficoltà nell’approntare una misura che, come si diceva all’inizio, non tiene conto delle caratteristiche specifiche del mercato del lavoro italiano. Del suo dinamismo. E delle sue grandi contraddizioni. Basti solo considerare il Nordest e paragonarlo con quanto accade nel Mezzogiorno. Non solo realtà, ma mondi completamente diversi. Come la stessa Commissione europea, riconoscendo il valore della proposta italiana di istituire un’unica Zona Economica Speciale per l’intero Sud Italia, al fine di rendere strutturale la misura “Decontribuzione Sud”, ha finito per ammettere.

L’idea che questo dinamismo sociale possa essere compresso in una gabbia giuridica non sembra essere la migliore. Il che non significa rassegnarsi al peggio. Per fortuna le frecce, nell’arco della politica economica, sono numerose. L’importante è concentrarsi sulle cause che sono all’origine del fenomeno è non sulle sue inevitabili conseguenze. Ed ecco allora che intervenire sul cuneo fiscale può essere un’alternativa. Con l’idea di partire dai redditi più bassi, che sono poi l’effetto più immediato di quel lavoro povero e che rappresenta una delle contraddizioni più vistose nelle economie più opulente.

Si potrebbe eccepire: comunque sia, sarebbero comunque soldi a carico della finanza pubblica. Quindi, a parità di costi, meglio intervenire direttamente sulle buste paga, aumentando il salario, piuttosto che ricorrere a quella sorta di triangolazione con il fisco. Forse, ma non è detto, l’aritmetica potrebbe dare lo stesso risultato. Ma non la politica economica, che è cosa molto più complessa. In entrambi i casi il netto in busta casa sarebbe destinato ad aumentare. Premessa indispensabile per far crescere il livello dei consumi interni e quindi trascinare verso l’alto il tasso di crescita complessiva. Sempre che vi siano risorse disponibili.

Ed allora dov’è la differenza? È tutta giocata sull’andamento delle “aspettative”. L’elemento che marca la differenza e caratterizza la politica economica. Quel sentiment che governa i comportamenti dei singoli operatori. Che sono liberi di investire, di consumare o di risparmiare a seconda dell’idea di futuro che si forma nella loro testa. Sulla quale le politiche governative sono in grado di incidere offrendo scenari, tracciando le possibili rotte in grado di offrire necessari punti di riferimento. Insomma: una sorta di forward guidance, per riprendere il linguaggio tipico della BCE, attinente la politica monetaria, ovviamente con una formalizzazione ben più leggera.

Da questo punto di vista, il sussidio diretto risponde alla logica del “tassa e spendi”. Salvo voler ricorrere al suo finanziamento in deficit. L’intervento sul fisco mira, invece, a ridurre il peso di quella sorta di “mano morta” che caratterizza alcuni aspetti dell’intervento pubblico italiano. Do you remember the spending review? Per liberare risorse da utilizzare in modo più produttivo. Sulla diversa efficienza delle due contrapposte misure c’è poco da discutere. Basterebbe rifarsi alla storia più recente. E concentrarsi sulla regressione economica, sociale addirittura demografica del nostro Paese. Per scoprire le ragioni più profonde di cambiamento, quanto mai necessario.

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