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Tunisia

Che cosa mostrano davvero i redditi dei contribuenti

Il reddito medio dichiarato dai contribuenti, esclusi gli incapienti con un reddito inferiore ai 7.500 euro l’anno, è stato pari a 26.500 euro. Ecco cosa significa. L'analisi di Gianfranco Polillo.

Se fossimo meno presi dalle nostre vecchie certezze. Se avessimo chiari i passaggi che regolano il succedersi dei cicli e delle stagioni. Per essere pienamente disponibili alla verifica dell’eventuale, ma spesso necessario, reset. Se fossimo consapevoli che “la difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nell’evadere dalle vecchie, le quali, per coloro che sono stati educati come lo è stata la maggioranza di noi, si ramificano in tutti gli angoli della mente” (Keynes: “Teoria generale). Allora, se fossimo tutto ciò, con ogni probabilità saremo in grado di vedere ciò che altri non possono nemmeno percepire. Ed adeguare le possibili soluzione a quel tratto di realtà che invece appare sfuggente ed inafferrabile.

Banca d’Italia ed Eurostat ci dicono che, lo scorso anno, l’Italia ha concesso crediti all’estero per un valore pari a 132 miliardi di euro, il 7,4 per cento del Pil. C’è stato forse qualcuno che si è posto il problema? Che ha sollevato almeno un sopracciglio, dati i drammatici problemi sociali che il Paese sta vivendo? Come già abbiamo detto in un’altra occasione, quel fenomeno non è stato nemmeno degno di menzione nei Def appena elaborato dai tecnici del Tesoro. Eppure l’interrogativo circa un diverso utilizzo di quelle somme, nell’ambito di una diversa politica economica, aveva una sua oggettiva valenza.

Ed invece tutto è apparso logico e naturale. “È la grande finanza! Bellezza”. È lei che decide. Non vorrai mica – come mi fu detto da uno di quegli uomini di cui parlava Keynes – reintrodurre il controllo del movimento dei capitali. Come se fosse questa l’unica possibile soluzione. La verità è, quindi, diversa. Se si ritiene che la globalizzazione sia il migliore dei mondi possibili, allora è giusto arrendersi ed incrociare le braccia. Nel mercato, con il mercato e per il mercato. Ma se si ritiene, invece, che quella fase, quella stagione sia ormai avviata lungo la via del tramonto, allora aguzzare l’ingegno diventa inevitabile ed indispensabile. Per evitare grandi e piccoli disastri.

La dimostrazione l’abbiamo nel dibattito avviato sulla riforma del sistema fiscale, in Italia. Anche in questo caso il peso della tradizione è debordante. Ci si divide tra chi ritiene che le tasse “siano ancora bellissime” (copyright di Tommaso Padoa Schioppa) e chi vorrebbe, invece, la flat tax come imperativo categorico. Nel mezzo di questo sferragliare d’armi si corre il rischio di perdere il senso delle proporzioni. Che nel caso specifico non possono che essere riferite al teatro europeo. Il problema è capire, innanzitutto, se il carico fiscale italiano diverge, ed eventualmente in che misura, da quello che caratterizza almeno l’Eurozona, a prescindere dalle specificità dei singoli Paesi.

La prima osservazione riguarda il suo peso relativo. Gli italiani sono dei privilegiati? A giudicare dal database della Banca d’Italia che mette a confronto i dati del Bel Paese con il resto dell’Eurozona si direbbe il contrario. Lo erano stati in passato, ma oggi hanno, semmai, qualcosa da recriminare. Fino al 2006 la pressione fiscale, in Italia, era mediamente pari a quella della media degli altri Paesi dell’euro. Da una punta massima del 42,3 per cento del Pil, nel 1997, era progressivamente scesa fino a toccare il 39 per cento nel 2005. Ma da allora era stato un crescendo, per giungere, grazie a Mario Monti, al suo apice nel 2013: il 43,4 per cento. In questi quattordici anni, la pressione fiscale in Italia é stata di 1,72 punti di Pil superiore a quella degli altri partner comunitari.

Essa, com’è noto, è calcolata sommando le entrate derivanti dai vari tributi (imposte dirette ed indirette) ai contributi sociali. Il “primato civile degli italiani” (su quello morale visto il livello di evasione avremmo dei dubbi) avrebbe detto Vincenzo Gioberti, consiste nella assoluta preminenza di entrambe le grandi categorie di imposta. Quelle dirette, nel periodo considerato, sono state pari, in media, a 2.46 punti di Pil, rispetto ai valori dell’Eurozona. Quelle indirette a 1.82 punti. Pertanto, in entrambi i casi, logica vorrebbe che il primo obiettivo dovrebbe essere quello di ridurne il peso specifico, per omologare l’Italia al resto del mondo civile del nostro stesso continente. Siamo o no Europei?

Completamente diversa la situazione sul fronte dei contributi sociali. Il peso a carico del lavoro dipendente risulta meno pesante, con un risparmio medio nel periodo considerato di ben 2,41 punti di Pil all’anno. Cosa, indubbiamente positiva, che contribuirebbe a spiegare il grande successo delle esportazioni italiane. Anche se il merito principale va attribuito alle capacità di imprenditori e maestranze di fornire prodotti eccezionali. Il dato fornito può, tuttavia, far discutere. Siamo abituati a considerare il cuneo fiscale – differenza tra reddito lordo e reddito netto – come uno dei più ostici problemi italiani. I dati, a livello globale, sembrano, invece, gettare acqua sul fuoco.

Occorre in proposito una doppia cautela. I dati su cui abbiamo lavorato sono espressi in percentuale del Pil. Va da sé che se quello italiano è cresciuto meno, come in effetti è avvenuto, i confronti, pur conservando un loro valore intrinseco, possono essere fuorvianti. Sempre nello stesso periodo mentre la crescita cumulata dell’Eurozona (dati Eurostat) è stata del 43 per cento, quella italiana è stata pari al 10,9 per cento. Nel precedente decennio invece si era verificato il contrario: crescita Eurozona 45,47 per cento. Italia 66,27. Differenze che si spiegano sia considerando il tasso di crescita effettivo, sia l’inflazione. A seguito delle politiche di austerity, in Italia, l’aumento dei prezzi è stato molto più contenuto.

Pur tenendo conto di questi elementi, il divario rimane. Resta comunque il fatto che le politiche fiscali dovrebbero essere soprattutto orientate a favore della crescita. Se questa si interrompe il sacrificio a carico del singolo diventa ancora più oneroso. Si prenda il caso dei valori di mercato delle abitazioni. Ogni riferimento alla riforma del catasto è puramente casuale. Secondo i dati della Commissione europea (tab. 3.10 Alert mechanism 2021) i prezzi delle abitazioni in Italia, nel periodo 2011/2020 sono diminuiti del 24,2 per cento, rispetto al deflatore del Pil. Peggio di noi, tra i 27 Paesi dell’Unione, solo la Grecia, con una caduta del 29,6 per cento. Mentre in tutti gli altri casi l’aumento è stato, più o meno, consistente.

Dati che devono far riflettere. Nel corso del periodo considerato le famiglie per contenere le perdite del proprio patrimonio hanno incentivato le forme di risparmio, comprimendo i consumi. Scelte che, complice ovviamente il Covid, hanno contribuito a determinare la forte caduta del Pil, di cui si diceva in precedenza. Si tratta di un fenomeno noto come “effetto ricchezza”. Se il valore del patrimonio, sia mobiliare che immobiliare, aumenta una parte di questa plusvalenza é utilizzata per incrementare i consumi. Nel caso opposto, invece, si privilegia il risparmio.

Il secondo elemento da considerare, ai fini del discorso sul cuneo fiscale, riguarda il mistero che aleggia sull’intero sistema fiscale italiano. Esiste, infatti, una distanza siderale tra la teoria e la prassi. Vale a dire tra la regola prevista in norma è quella che risulta, alla fine, una volta considerato il gioco delle deduzioni e delle detrazioni. Che non è neutrale, ma favorisce alcune categorie di reddito e ne penalizza altre. Gli ultimi dati del Dipartimento delle finanze del Mef, relativi ai redditi 2020, ne danno testimonianza ed, al tempo stesso, forniscono la seconda risposta al problema del cuneo fiscale.

Il reddito medio dichiarato dai contribuenti, esclusi gli incapienti con un reddito inferiore ai 7.500 euro l’anno, è stato pari a 26.500 euro. La loro aliquota legale è stata pari, in media, al 23,1 per cento, ma quella effettiva, calcolando appunto il gioco delle deduzioni e delle detrazioni, a poco più della metà: 12,6 per cento. Per cui, alla fine della fiera, grazie a questo gioco di prestigio, nel 2020, l’87,7 per cento dei contribuenti, sempre esclusi gli incapienti intorno al 25 per cento del totale, ha garantito all’Erario il 50,20 per cento del gettito delle imposte dirette. Mentre l’altra metà, il 49,8 per cento, é stato posto a carico dei presunti “Paperoni”. Che non sono gli oligarchici russi, ma gente che percepisce una retribuzione compresa tra i 45.000 ed i 300.000 (0,1 per cento del totale) euro l’anno. Come diceva Renzo Arbore: “meditate, gente, meditate”.

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