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Tunisia

Recovery Plan, Piano Marshall e i Gattopardi

L'analisi di Gianfranco Polillo

Si continua a discutere di Piano Marshall e Recovery Plan (da ultimo Alberto Mingardi sul Corriere), vedendo in quest’ultimo intervento una sorta di Piano Marshall, 2.0. Quel programma, all’indomani della Seconda guerra mondiale, che permise all’Europa, in generale, ed all’Italia, in particolare, di lenire le ferite della guerra e rimettersi in cammino. Per la verità non fu così semplice. La sinistra comunista ne osteggiò fin dall’inizio la prospettiva, ritenendolo uno strumento dell’imperialismo americano. Il sindacato unitario, sebbene alla vigilia di quelle scissioni che lo avrebbe diviso in tre tronconi (CGIL, CISL, UIL), si poneva invece in una posizione dialettica: attento alle novità, ma anche capace di cogliere i limiti della politica governativa.

Con l’elaborazione del Piano del lavoro, che prese forma tra il 1949 ed il 1950, si cercò di puntualizzare le divergenze, dando ad esse una prospettiva programmatica, che purtroppo non ebbe il successo che meritava. Colpa soprattutto di una situazione politica che volgeva al peggio, lungo quel pericoloso crinale che sarebbe stato l’avvio del periodo di “guerra fredda”. Attualizzarne, in qualche modo i contenuti, può essere allora interessante per non disperdere quelle antiche intuizioni, destinate ad illuminare le notti più buie di questo nostro tempo.

Le analogie ci sono tutte. A partire da una pandemia che, di fatto, può essere equiparata, sia per il numero dei morti che per le conseguenze economiche indotte, ad una guerra vera e propria. Poi ci sono i costi della ricostruzione, quindi una situazione pre-covid che, come negli anni antecedenti la seconda guerra mondiale, presentava squilibri economici e sociali destinati a peggiorare. Infine il dato inequivocabile rappresentato dagli insostenibili livelli di disoccupazione, destinati ad aumentare, non appena scadrà il periodo della CIG – Covid.

Il Piano del lavoro partiva da una stridente contraddizione. Da un lato gli elevati livelli di disoccupazione, dall’altro la reale situazione finanziaria del Paese. Nel 1950, Di Vittorio denunciava, come insostenibile, il livello di disoccupazione raggiunto, ch’egli calcolava in 2 milioni di addetti. Alla fine dello scorso anno i disoccupati in Italia erano 2.275.000 unità. Dopo marzo, con lo scadere della CIG, a meno ch’essa non sia rinnovata, c’è ne sarà un altro milione. È così in tutta Europa? Sembrerebbe di no. Le previsioni della Commissione europea, per il prossimo anno, indicano per l’Italia, un aumento di 2 punti percentuali. Sarà il terzo livello di disoccupazione dopo la Spagna e la Grecia. Situazione che perdura da oltre un decennio.

Simile, anche se con alcune differenze, la situazione finanziaria. Più o meno identico non solo il livello di debito, ma l’attivo nei confronti dell’estero. Ma mentre negli anni ‘50 esso era dato dal congelamento dei fondi Marshall presso la Banca d’Italia, a garanzia del valore del cambio. Dal 2014 in poi l’attivo valutario italiano è dato dal forte sviluppo delle industrie esportatrici, dopo la stretta darwiniana, indotta dalla politica di austerity del Governo Monti.

Così oggi l’Italia si trova ad essere il Paese che è al terzo posto delle classifiche dell’Eurozona, sia per l’entità del surplus delle partite correnti della bilancia dei pagamenti (300 miliardi di euro in sei anni), quasi una volta e mezza i fondi del Recovery Plan, che per i livelli di disoccupazione a due cifre, inferiori solo a quelli della Spagna e della Grecia.

L’Italia — si interrogava Di Vittorio presentando il “Piano”, nel 1950 — “ha accumulato una riserva valutaria imponente” inoltre “possiede all’estero riserve non utilizzate pari a 576 miliardi e 800 milioni di lire. Tutto questo denaro a che cosa serve, cosa ne fa il Governo? Lo usa per garantire “la stabilità della lira.” Ma “non sarebbe più utile al paese che noi lasciassimo a garantire la difesa della lira 76 miliardi e 800 milioni e spendessimo 500 miliardi restanti per dar vita e lavoro alle famiglie italiane?”

A distanza di anni questo stesso interrogativo rimane senza risposta. Quei 300 miliardi di euro, cui se ne sommeranno altri 209 del Recovery Plan, non potrebbero essere utilizzati “per dar vita e lavoro alle famiglie italiane”. Evitando, tuttavia, come diceva lo stesso Di Vittorio, “i soliti lavori pubblici,” quelli che si limitano a spostare “la terra da un punto all’altro”, ma favorendo, al contrario, quei “lavori che producono”. Altro che assistenzialismo o interpretazione maccheronica del pensiero di Keynes. Come si vede, mutatis mutandis, il tempo del Gattopardo non passa mai. Con una sola grande differenza. Allora c’era Giuseppe Di Vittorio, che parlava. Oggi nessuno.

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