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Piano Marshall e Next Generation Eu: storia, cronaca e confronti

L'analisi di Gianfranco Polillo su Piano Marshall e Next Generation Eu fra cronaca e storia

 

Si è parlato molto del Piano Marshall, per porlo in relazione alla Next Generation Eu. Confronto inevitabile. Quella decisione da parte americana fu frutto di un mix di valutazioni economiche e politiche. Gli aiuti ed i crediti concessi dovevano servire a risollevare le sorti del Continente, dopo le immani distruzioni della guerra. A fare da barriera al pericolo rosso, rappresentato dai comunisti e dall’Urss. Ed, al tempo stesso, favorire la riconversione dell’industria americana, che gli sforzi bellici avevano sviluppato come non mai, ed ora doveva cambiar pelle per rapportarsi ad una nuova normalità.

La dimensione complessiva del Piano, che si articolò in 4 anni (dal 1948 al 1951), prevedeva un impegno finanziario complessivo superiore ai 12,7 miliardi di dollari. Con l’unica condizione che le risorse fossero spese, in prevalenza, per acquistare prodotti made in Usa. I Paesi interessati furono 16: tutti all’interno del perimetro europeo. Unica eccezione la Turchia. Allora, molto più di oggi, strettamente agganciata all’alleanza atlantica. La quota italiana fu pari ad 1,2 miliardi di dollari. Cifre molto minori, rispetto all’impegno finanziario del Recovery Fund, pur tenendo conto del diverso potere d’acquisto della moneta.

Fin qui le cose più note. Il lato più oscuro di quegli anni lontani rimane ciò che accadde, effettivamente, in Italia. Soprattutto le polemiche che accompagnarono le linee di politica economica del Governo. Ricordarle può essere utile per evitare di ripetere errori che potrebbero avere lo stesso segno. L’Italia di allora era stata sopraffatta dallo sviluppo di una forte inflazione, dovuta alla scarsezza dei beni (mercato nero e tessera annonaria), ad una circolazione monetaria alimentata dalle spese di guerra e dalle Amlire: la moneta con cui venivano pagate le truppe alleate.

Per combattere il continuo aumento dei prezzi, la linea Pella-Einaudi, voluta dal primo, nella sua qualità di Ministro del Tesoro, ma in sintonia con il Presidente della Repubblica, aveva prodotto una forte deflazione, appena mitigata dalla svalutazione della lira. Che avrebbe dato un po’ di respiro alle esportazioni italiane senza avere la forza, tuttavia, di incidere su un tasso di disoccupazione, che aveva non solo raggiunto cifre preoccupanti, ma si estendeva dal Sud al Nord del Paese, alimentando i grandi flussi migratori verso gli altri Paesi: l’Europa, le Americhe, l’Australia.

Per far fronte a quest’ultimo problema – questa era la richiesta dell’ECA (Economic Cooperation Administration) preposta alla gestione del Piano – si chiedeva all’Italia di utilizzare le risorse ricevute per sviluppare al massimo gli investimenti, al fine di riassorbire la disoccupazione in eccesso. Approfittando del carattere misto della sua economia, l’IRI e poi l’ENI avrebbero potuto svolgere un ruolo di supplenza rispetto all’inappetenza del capitale privato. L’Italia, invece, preferì congelare gran parte di quelle risorse nei forzieri della Banca d’Italia, come riserva valutaria a garanzia del valore della lira. Politica che contribuì ad aggravare, inevitabilmente, il fenomeno della disoccupazione.

La polemica divenne più aspra con la pubblicazione, da parte dell’ECA, del “Country report” che contrappose nettamente gli economisti di formazione keynesiana ai liberisti puri à la Einaudi. Una contesa che, per un caso fortuito, non produsse né vinti né vincitori. Lo scoppio della guerra di Corea, infatti, alimentò una fortissima espansione del ciclo economico, di cui l’Italia, al pari degli altri Paesi, né beneficiò. Il che consentì di ridurre le distanze tra le due scuole di pensiero. Grazie allo sviluppo delle esportazioni, l’Italia si rimise in marcia, accelerando la sua trasformazione da Paese prevalentemente agricolo, com’era prima della guerra, a paese industrializzato.

Torniamo all’oggi. Il panorama ha molti punti di contatto, al di là delle ovvie differenze. Dalla deflazione, indotta dalle politiche di austerity del 2011, l’Italia ancora non è uscita. Lo dimostra l’assenza di inflazione e il tasso di disoccupazione. La dinamica dei prezzi in Italia è ben più contenuta non solo rispetto ai suoi precedenti storici, ma nei confronti degli altri Paesi europei. Mentre i livelli di disoccupazione, che diverranno drammatici tra qualche mese, avevano raggiunto, anche prima della pandemia, valori a doppia cifra. Peggio solo la Spagna e la Grecia. In compenso le esportazioni sono state l’unico elemento di traino dell’economia nazionale, con un riflesso sistematicamente positivo sulla bilancia dei pagamenti. Un surplus medio del del 2,5 per cento del Pil all’anno. Segno evidente di una sottovalutazione del cambio in termini reali.

Ed ecco allora, al di là delle enormi diversità storiche, le simmetrie presenti in uno stesso “modello di sviluppo”. Che va cambiato, se si vuole dare all’Italia la prospettiva che merita. Allora il Paese usciva dalla guerra, ma questa pandemia, proprio nell’insegnamento di Mario Draghi, non è diversa. La ricetta giusta, questa volta, somiglia da vicino al “country report” dell’ECA di quasi cento anni fa. Purtroppo per assorbire quel surplus molesto della bilancia dei pagamenti non si hanno a disposizione le grandi imprese pubbliche di allora, frutto della lungimiranza di Alberto Beneduce. Occorrerà quindi sperimentare nuovi strumenti (la riforma del fisco?) per sostenere la domanda interna, che è la precondizione per allargare le basi produttive del Paese. Sarà questo il compito più difficile di Mario Draghi, che dovrà ripetere il miracolo di qualche anno fa, inventando anche per l’Italia nuove “politiche non convenzionali”.

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