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Visco

Perché Visco (Bankitalia) non convince troppo sul rischio rincorsa prezzi-salari

Le parole del governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, commentate da Giorgio Meletti sul quotidiano Domani

 

Dopo aver spezzato il pane della scienza dell’ovvio, Visco ha ignorato il punto vero: pandemia e guerra colpiscono tutto il pianeta ma non allo stesso modo. Colpiscono in modo feroce i paesi più poveri e in modo contenuto i paesi più ricchi (Stati Uniti, Germania, Francia), ma in misura un paese come l’Italia, ricco ma da anni afflitto da un costante impoverimento. E in Italia colpiscono i poveri e non i ricchi. Fanno male al grosso delle famiglie, costrette a tirare avanti con 20-30 mila euro l’anno quando va bene, e non a quelle che possono contare su uno stipendio di 450 mila euro.

La pandemia e la guerra si abbattono in Italia soprattutto su milioni di disoccupati ufficiali e su milioni di disoccupati occulti, come quelli che lavorano dieci ore alla settimana e l’Istat considera occupati. Sul punto Visco si limita a notare che l’Italia è afflitta da «una tendenziale riduzione della forza lavoro»: l’Istat prevede nei prossimi 15 anni 5 milioni di persone di meno tra i 15 e i 64 anni, come effetto del calo demografico, mentre «nell’ultimo decennio la mancanza di adeguate occasioni di lavoro ha spinto quasi un milione di italiani a trasferirsi all’estero».

C’è poi, da molto prima delle disgrazie esogene (come le definirebbero gli economisti togati), una drammatica questione salariale. Negli ultimi 30 anni i salari italiani sono calati del tre per cento, quelli francesi sono cresciuti del 31 per cento, quelli tedeschi di quasi il 34 per cento. Che dice Visco di tutto questo? Niente.

Per lui, come per molti economisti e politici, quello che conta è l’economia nel suo complesso, per dirla volgarmente il numero di polli consumati: se poi qualcuno ne mangia due lasciando a un altro la fame non importa, la media è salva. E così in Italia non c’è la questione salariale, se non, udite udite, come minaccia per l’inflazione. E sì, perché nel libretto d’istruzioni per guidare l’economia nazionale c’è scritto che all’aumentare dei prezzi il potere d’acquisto dei lavoratori cala, quindi gli esosi chiedono aumenti salariali. Ma se li ottengono il costo di produzione delle merci aumenta e così il prezzo finale delle stesse, che spingerà l’inflazione e indurrà gli incontentabili a chiedere nuovi aumenti.

Visco è terrorizzato: la guerra ha fatto schizzare i prezzi dell’energia e quindi l’inflazione, ma lui non si preoccupa tanto di famiglie e imprese in difficoltà con le bollette e con tutte le altre spese, si preoccupa del rischio di «una rincorsa tra prezzi e salari».

Perché c’è un altro serio problema. Sempre nel manuale d’istruzioni c’è scritto che se aumentano i salari c’è più disponibilità a spendere e più richiesta di merci, e per la nota legge della domanda e dell’offerta se la gente compra di più i prezzi salgono. Cosicché un aumento dei salari stimola due volte l’inflazione.

Ma Visco è sereno: basta lasciare fermi i salari e così l’inflazione eroderà ulteriormente il già infimo potere d’acquisto delle famiglie e, testuale, «la perdita di potere d’acquisto tenderà a contenere la domanda finale, attenuando la pressione sui prezzi». E così l’economia sarà salva. Purtroppo però il ragionamento di Visco somiglia alla storiella del contadino che aveva abituato il suo somaro a mangiare sempre meno, fino a che la povera bestia morì e il suo datore di lavoro di disperò: «Che peccato, proprio ora che aveva imparato a non mangiare».

(Estratto di un articolo pubblicato sul quotidiano Domani; qui la versione integrale)

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