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Perché non sarà solo il Recovery Plan a far rialzare l’Italia: serve uno choc fiscale

Se i consumi languono, non c’è industria o attività economica che possa sopravvivere. E allora un pensierino sull’eccesso di carico fiscale, asse portante della struttura amministrativa del Paese, va fatto. Perché non sarà (solo) il Recovery Fund a risollevare l’Italia. L’analisi di Gianfranco Polillo Il buon Gualtieri, da Via XX Settembre, potrà fare tutti tentativi…

Il buon Gualtieri, da Via XX Settembre, potrà fare tutti tentativi necessari. Potrà mediare tra Matteo Renzi, l’unico che sembra interessato ai contenuti del Recovery Plan e Giuseppe Conte che guarda più al format del documento finale, che non alle scelte da portare avanti.

All’inizio, come si ricorderà, le aveva addirittura appaltate ad una “struttura tecnica” in grado di bypassare ogni decisione di carattere politico. Poi la palla passerà a Vincenzo Amendola, che dovrà vedersela con la Commissione europea: pronta a cercare il pelo nell’uovo, se non altro per non irritare ulteriormente i vari Mark Rutte, da tempo sul piede di guerra.

Sarà una fatica ricompensata? Quel piano, una volta ottenuti tutti i timbri necessari, riuscirà a determinare quella svolta che tutti aspettano con ansia? Francamente ne dubitiamo. Nelle migliori delle ipotesi sarà un buon esercizio calligrafico, che permetterà di spendere qualche soldo – un po’ a debito ed un po’ a carico dell’Europa – ma difficilmente sarà in grado di determinare quella ripartenza che sono in molti a vagheggiare. Pessimismo eccessivo? C’è da sperare il contrario, se non fosse per i rischi che il lasciar correre potrebbero alimentare.

Il ritardo nella predisposizione del Piano è talmente evidente da non dover essere ulteriormente stigmatizzato. Meglio interrogarsi sul perché. Da dove nasce quella sua continua riscrittura? Da un eccesso di zelo? Da un contrasto, all’interno del Governo, tra ipotesi diverse? Dalla necessità di una sorta di concordato preventivo con l’Europa, le cui linee guide sono semplici indirizzi e non quella sorta di vangelo che taluni vorrebbero. Quant’è facile scaricare su altri la propria incapacità di decidere. La verità è quella che è stata raccontata. All’inizio era solo un’accozzaglia di fondi di magazzino. Vecchi programmi ministeriali dimenticati nei cassetti e rinverditi per l’occasione. Molti dei quali già contemplati, come improbabili trofei, in vari provvedimenti legislativi.

Top secret: erano state queste le disposizioni impartite ai vari addetti ai lavori. Il timore che qualcuno scoprisse cosa ci fosse sotto quel vestito. Missione, come sempre accaduto in Italia, rilevatesi impossibile. Ed allora di fronte al coro di critiche, ecco la successiva operazione di taglia e cuci. I programmi si restringono come pigiati in una morsa. Cambia il rapporto tra il vecchio ed il nuovo. Si contiene, in altre parole, il peso dei fondi di magazzino e si ipotizzano nuove soluzioni. Aumentano, a quanto è dato da sapere, i fondi per la sanità (sempre una frazione rispetto alle disponibilità offerte dal Mes), si contengono i bonus e crescono gli investimenti pubblici. Il Mezzogiorno conquista l’obiettivo del 40 per cento nella ripartizione della spesa.

Vedremo meglio quando il documento finale verrà, finalmente, alla luce: crisi di governo permettendo. C’è, tuttavia, una domanda che rimane senza risposte. Quali sono i dati di contesto? In che modo questo programma può e vuole interagire con la situazione reale del Paese? Se non si parte da qui, come avveniva ai tempi in cui si cercava di programmare contro il volere di tanti “poteri forti”, si fa solo accademia. Può servire per qualche operazione di piccolo o grande cabotaggio, ma scordatevi che quest’approccio possa determinare quel cambiamento che pure sarebbe indispensabile.

Eppure non sarebbe difficile individuare alcune linee di tendenza. Nelle tragedie grandi e piccole, che hanno segnato la storia di questi ultimi anni, ci sono anche momenti di luce e di speranza. Non bisognava nemmeno cercarli con la lanterna di Diogene, essendo disponibili nei grandi database delle principali Istituzioni internazionali. Abbiamo usati i dati Eurostat, ma avremmo potuto chiamare in causa l’Ocse o il Fmi. Nessuna differenza: l’importante era ed è il metodo di analisi. Soprattutto il confronto nella dinamica dei grandi aggregati dei principali Paesi europei.

C’è un dato che balza subito agli occhi, nelle tendenze di lungo periodo. L’Italia – non è un mistero – quanto a crescita del Pil, è l’ultima ruota del carro. Nel gruppo dei Paesi di testa, dal 2008 al 2019 perde due punti percentuali secchi: passando dal 17 al 15 per cento del reddito dell’Eurozona. Francia e Spagna perdono anche loro qualcosa, ma molto meno della metà. Germania e Gran Bretagna, soprattutto la prima, al contrario, vedono aumentare il loro bottino. Fin qui nulla di nuovo, se non la conferma di un trend ben conosciuto.

La novità sta invece nei dati relativi all’andamento della produzione industriale. In questo caso, infatti, rispetto ai Paesi concorrenti non solo non c’è traccia di crisi. Ovviamente specifica. Ma nel grigio di una tendenza generale che non ha, certo, scaldato il cuore, l’Italia fa meglio di tutti. Fatto 100 l’indice della produzione industriale del 2015, nel 2019 il risultato italiano è stato pari a 105.2, contro un valore dell’Eurozona di 103.9. In questo contesto solo la Spagna ha fatto leggermente meglio: 106.0. Un leggero sorpasso che è stato recuperato nel corso dei primi dieci mesi del 2020. L’Italia, in testa a tutti, si colloca a quota 99.87 (100 l’indice dicembre 2019). L’Eurozona a 98.69. La Spagna a 98.54. La Germania a 96.63.

La ragione di quest’apparente anomalia la si vede nella dinamica del commercio internazionale. Ancora una volta, tra i Paesi maggiori, l’Italia vanta un piccolo record. Surclassata solo dalla Germania ed in linea con la media dell’Eurozona, a sua volta condizionata dal peso prevalente dell’economia tedesca. Nel 2019 il rapporto export/import, secondo Eurostat, è stato pari a 1.09 per l’Italia, contro 1.10 per l’Eurozona. Secondo solo alla Germania. Naturalmente vi sono Paesi, come la Danimarca, l’Olanda e Lussemburgo, caratterizzati da un dinamismo anche maggiore – cosa che spiega la loro preferenza per la “frugalità” – ma l’insieme del loro reddito nazionale è pari a poco più del 60 per cento di quello italiano.

Che conclusione trarre? L’industria italiana, nonostante tutto, non perde colpi rispetto alla concorrenza estera. Un’infrastruttura, quindi, tutt’altro che bisognosa del medico pietoso. L’esatto contrario di quanto avviene per il resto del Paese. Il che crea un interrogativo che meriterebbe una risposta prima di lanciarsi nei voli pindarici del Recovery Plan. Forse una delle cause va ricercata nel massacro operato dalla politica economica di questi ultimi anni sulla domanda interna.

Se manca il consumo, non c’è industria o attività economica che possa sopravvivere. Ed allora un pensierino sull’eccesso di carico fiscale, asse portante della struttura amministrativa del Paese, forse va fatto. Ponendo il tema di una sua riforma complessiva al centro della riflessione. Europa permettendo o meno. Ma che interesse avrebbe quest’ultima nel negare l’evidenza?

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