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Perché non basta dare i numeri di contagiati, guariti e morti da Covid-19

Sommessi suggerimenti per una comunicazione istituzionale meno asettica e più propositiva su Coronavirus e Covid-19. Il commento di Gianfranco Polillo

Nella comunicazione istituzionale domina il pessimismo. Si sottolinea, in ogni modo, la drammaticità della situazione. Che ovviamente non manca, specie da quelle zone come Bergamo o Brescia in cui si concentrano i valori più acuti della crisi. Due i parametri da considerare: da un lato il numero dei contagiati, dall’altro quello degli abitanti. È, infatti, evidente che l’aspetto più preoccupante della pandemia è il concentrarsi del numero dei malati in spazi limitati ad alta densità di popolazione. Caratterizzati, di conseguenza, dalla presenza di limitate risorse sanitarie: accumulate negli anni della gestione ordinaria. Quando la domanda di salute aveva caratteristiche ben diverse.

In Lombardia, dove risiede circa il 16,6 per cento della popolazione italiana, i positivi al Coronavirus, sono stati sempre superiori al 50 per cento del totale: percentuale, per fortuna, in lenta diminuzione. Le provincie più colpite, ed anche contigue dal punto di vista territoriale, sono state quelle di Bergamo, Brescia, Lodi, Cremona e Milano. In queste zone, dove vive circa il 60 per cento dei lombardi, la concentrazione dei positivi al virus Sars Cov-2 supera l’80 per cento dei casi regionali. Proiettando questi dati sul piano nazionale, la concentrazione del virus, è pari all’85 per cento (dati del 17 marzo) nelle sei regioni del centro nord: Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Piemonte, Marche e Toscana. Con percentuali che vanno dal 46 per cento (Lombardia) al 4 per cento della Toscana.

Il residuo 15 per cento dei positivi si disperde in modo relativamente uniforme nelle restanti 15 regioni, con percentuali, esclusa la Liguria (3 per cento), che oscilla tra lo zero e l’1 per cento. Il che, per molti versi, è un bene, considerato il gap di risorse sanitarie che taglia in due il Paese. Se le proporzioni fossero state inverse, le conseguenze sarebbero state ben più drammatiche. Naturalmente, in entrambi i casi, stiamo parlando di casi accertati. Non degli asintomatici. Di coloro cioè che hanno contratto il virus, la cui sintomatologia non si è ancora manifestata. Problema tipico di ogni epidemia. L’eventuale contagio comporta un tempo di incubazione, solo al termine del quale appaiono i sintomi della malattia.

Questa complicata situazione condiziona notevolmente la comunicazione. Nelle zone a più alta intensità – si pensi solo alla bresciana – le strutture sanitarie rischiano di collassare in ogni momento. Alla forte concentrazione di “positivi” si accompagna inevitabilmente un maggior numero dei decessi, che sembra far balzare in alto il tasso di mortalità. Che in Italia è pari al 10,5 per mille, da rapportare, tuttavia, all’intera popolazione e non al solo numero dei “positivi”. Nelle altre regioni, meno dotate dal punto di vista sanitario, si teme invece il peggio, qualora il contagio divenisse più virulento. Si cerca pertanto di evitare almeno il cosiddetto “contagio di ritorno”. Che deriva dall’ingresso di soggetti provenienti dall’esterno. Soprattutto dalle zone che presentano una maggiore diffusione del virus.

Il tutto poi è esasperato dalla logica della cosiddetta “mitigazione” che è la forma scelta per contrastare la diffusione del virus. Come dicono gli specialisti, è necessario ridurre il fattore R. Che rappresenta la forza del virus: ossia il suo moltiplicarsi. Diffondendosi da persona a persona. Si dice (come scrive Tomas Pueyo: Mba -Master of Business Administration- all’Università di Stanford, nel suo “Coronavirus – Perché Agire Ora”) ch’esso abbia una valenza compresa tra 2 e 3. Il “paziente zero” è in grado di infettare le prime 2 o 3 persone, che, a loro volta, ne infettano altrettanti, secondo una progressione esponenziale. Ridurre quindi i contatti tra le persone – da qui il backstop di tutte le attività non essenziali ed il lockdown generalizzato – diventa un imperativo nazionale. Il modello seguito prima in Cina e poi in Italia. Ma destinato ad essere importato in quasi tutti i Paesi occidentali. Compresi quegli scettici, come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti.

Obiettivo, comunque, non facile da conseguire. Visto le resistenze che si incontrano nel cercare di modificare, a livello di massa, abitudini consolidate. Costringere milioni di persone a rimanere a casa, a rinunciare a momenti di socialità, a non vedere amici e parenti, senza ricorrere a vere e proprie forme di militarizzazione, si può ottenere solo ricorrendo ad una comunicazione che, in qualche modo, amplifichi la portata del fenomeno. Cosa giusta e necessaria: seppur nei limiti della decenza. Il suo effetto collaterale può essere infatti l’alimentare una forma depressiva. La sensazione, cioè, che tutto questo sia abbastanza inutile, in una resistenza vana rispetto al progredire della diffusione.

Bisogna invece dare speranza. Dimostrare, se vi sono i presupposti, che quei sacrifici stiano pagando. Da qui la necessità di un’analisi meno superficiale delle risultanze giornaliere. Non basta dare i numeri dei contagiati, dei guariti e dei deceduti. Occorre spiegare il trend, che non è dato dai numeri in assoluto, ma dalle percentuali di crescita relativa. Approccio che evita tra l’altro errori come quelli commessi ieri, quando si è parlato di un’improvvisa accelerazione del fenomeno. Che non trova invece riscontro in una realtà, se correttamente interpretata.

I contagi – è stato detto – sono aumentati di 2.989 casi, contro i 2.470 del giorno precedente. Fenomeno in evidente crescita. Si è invece trascurato di tener conto del fatto che il giorno precedente non erano pervenuti i dati di alcune regioni, per cui la forte diminuzione che si era registrata (da 2.853 casi a 2.470 casi) era poco significativa. Tenendo conto di questa défaillance, ed aggiustando la successione con opportune medie, il trend del fenomeno di segno completamente diverso.

Dal 7 marzo, quando i “positivi” aumentarono di un balzo del 32,6 per cento, quel tasso si è progressivamente ridotto, raggiungendo il 13 per cento di ieri. Che diventa il 12 per cento se si apporta la correzione di cui si diceva in precedenza. La dimostrazione che la regola della “mitigazione” sta in qualche modo funzionando. E che R tende a diminuire, al punto che, se il trend dovesse continuare, tra qualche giorno saremmo in grado di toccare il culmine della diffusione: dopo di che inizierebbe la sua progressiva riduzione. Resistere, quindi, è ancora necessario, ma, avendo contezza dei risultati raggiunti, lo possiamo fare con un pizzico in più di speranza.

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